Adesso riempirà lo zaino, caricherà figlio e moglie e prenderà la via delle Indie (della Nuova Zelanda? del Bhutan? del Kirghisistan? della Namibia?) da dove ci invierà dispacci sulla situazione della democrazia nei paesi remoti. Li leggeremo sul Fatto Quotidiano, li vedremo sulla Nove, ci abbevereremo al verbo sul suo sito Internet (o Istagram? o Tik Tok? o Clubhouse?). Ma non temete, tornerà. Tornerà quando Di Maio non potrà più candidarsi e nemmeno Toninelli per non parlare di Crimi. Un Dibba non scompare facilmente. Un Dibba non è per sempre ma nemmeno per poco.
da Muin Masri
Dimenticate Renzi e il suo ingresso nudo in parlamento. Dimenticate il pallone portato da casa da Grillo e del suo scarso palleggio con Di Maio. Dimenticate i giornalisti con il vizio del tifo per Conte. Dimenticate la finta réunion del Partito Democratico. Dimenticate Berlusconi, il cavaliere dimezzato. Dimenticate le folcloristiche mascherine di Salvini. Dimenticate lo stalking della Meloni a Mattarella con il suo “al voto, al voto…”. Avete dimenticate tutto? Bene!
Avete presente quel tizio che prende in mano una nazionale di calcio lacerata da infortuni, svuotata da squalificati e spogliatoio spericolasamente spaccato in tanti, troppi gruppetti? E poi, come per magia, inventa una squadra rispettabile dal niente. Ecco, a breve la squadra di Mario Draghi scenderà in campo e non per insultare, deridere e delegittimare gli avversari, come hanno fatto finora tutti i partiti, ma per tirare fuori il meglio di un paese stanco di perdere e lottare per ogni cosa. D’altronde basta un pareggio 0-0 per riprendere la capacità di sognare. E come diceva Saba “nessuna offesa varcava la porta”.
Il pareggio 0 a 0 mi sta bene, basta che non faccia catenaccio. (csf)
monumento che ricorda la strage di Podhum
da Mario Quaia
Ogni anno, il 10 di febbraio, le destre nostalgiche si mobilitano per ricordare i tragici eventi delle foibe e l’esodo dei Giuliano-dalmati. In verità il ricordo vuole andare oltre: contrapporre i crimini del comunismo (che sono esistiti, intendiamoci) alla prassi ormai consolidata di celebrare la giornata della memoria (in omaggio alla shoah) e il 25 aprile, festa della Liberazione, giornate che hanno segnato l’approdo tombale per tutto ciò che ha rappresentato il nazifascismo. Secondo i primi due firmatari della legge – Menia e La Russa, entrambi protagonisti nella storia del Msi, e già questo la dice lunga – avrebbe dovuto rappresentare un momento di riconciliazione. Dopo 15 anni, si sa, mai ricorrenza fu così divisiva.
Il perché è presto detto: l’Italia non ha mai fatti i conti con il proprio passato. Contrariamente alla Germania, passata sotto la scure dello storico processo di Norimberga, e non solo: ha rimosso i crimini anche dalle proprie coscienze. Capi di Stato e di Governo si sono recati in processione, inginocchiandosi nei campi di concentramento e nei luoghi della memoria di maggiore impatto: da Sant’Anna di Stazzema a Marzabotto, solo per citare luoghi simbolo in Italia. Hanno chiesto perdono e hanno deposto una corona o un fiore nei cippi che ricordano i loro eccidi.
In Italia nulla di tutto ciò. L’esercito italiano di occupazione nell’ex Jugoslavia ha commesso gli stessi delitti dei nazisti. Stragi, esecuzioni di massa, rastrellamenti, devastazioni, incendi di interi villaggi, razzie di tutti i tipi. Eppure nessuno ha pagato. L’ordine del duce era chiaro: “Mettere tutto a ferro e fuoco e dimostrare la determinazione dei soldati italiani”. Il simbolo di queste rappresaglie si chiama Podhum, nell’entroterra di Fiume. Tutti gli uomini di età compresa tra i 16 e i 64 anni (120 in tutto) furono condotti in una vicina cava e uccisi a raffiche di mitragliatrice. Altre centinaia di persone morirono nel campo di concentramento di Arbe.
Dopo la fine della guerra il governo jugoslavo ha chiesto a più riprese la consegna di più di 700 militari ( tra i quali i generali Roatta e Robotti) comandanti del contingente italiano di occupazione per essere processati per crimini contro l’umanità. La loro estradizione non fu mai concessa. E nessun politico italiano si è mai recato in quei luoghi per chiedere perdono o deporre un fiore. Come nulla fosse accaduto.
E io da italiano mi vergogno, ma mi vergogno proprio.
da Massimo Puleo
Matteo Salvini ha chiesto di sposare Carola Rackete sulla Sea Watch 3 al largo delle coste libiche, testimoni quattro migranti appena presi a bordo
Ma l’Orient Express faceva pure il viaggio di ritorno?
da Cinzia Opezzi
Qualche anno fa, epoca Chiampa, ho tenuto compagnia al cane di un mendicante in via Roma, a Torino, mentre lui andava a giocare d’azzardo. mi ha spiegato che non potevo sedermi perchè è vietato – dovevo stare in piedi – mentre ero lì si è fermata una macchina e mi ha dato della carne – per il cane – raccomandandomi il cane – bellissimo pastore tedesco a pelo lungo… In effetti privare i mendicanti dei cani è un duro colpo a loro e a probabilmente anche ai cani – che con loro hanno la possibilità di stare in giro tutto il giorno invece che chiusi da qualche parte ad aspettare il padrone – Sul gioco d’azzardo? niente da dire
Si può chiedere l’elemosina sotto i portici? Sì.
Si può andare in giro con un cane sotto i portici? Sì.
Si può chiedere l’elemosina sotto i portici andando in giro con un cane? No, a Torino no. Comma 22 del nuovo Regolamento Animali. Ma anche in altre città il problema è all’ordine del giorno. Sembra che non ci sia consiglio comunale che non si faccia carico del fondamentale problema e non individui la soluzione nel divieto.
Io non credevo che fosse una situazione così drammatica. Ma sapete com’è la gente…Il problema non è che esistano i mendicanti che dormono all’aperto, sotto un ponte o su una panchina e che non abbiamo soldi per mangiare. Il problema non sono queste tremende sacche di povertà cui non si riesce, se non in rarissimi casi, a trovare una soluzione. Il problema è che i mendicanti, anzi gli accattoni, come li chiama la gente perbene, si accompagnano a cani. I cani sono riservati alle persone benestanti, quelle che la sera vanno a dormire a casa. Agli altri, a quei poveretti che casa non ce l’hanno, la compagnia del cane è vietata. Si configura il reato di maltrattamento perché i poveri cani sono costretti a dormire al freddo. Che dormano al freddo i mendicanti non preoccupa nessuno. Ma se i mendicanti costringono i cani a dormire come loro, beh, allora vanno multati e i cani confiscati e – come dicono alcuni articoli di regolamenti comunali – “restituiti ai loro padroni”. Cioè accalappiacani e canili.
Ma dietro c’è il racket. C’è sempre un racket quando non si riesce a risolvere un problema. Il racket degli accattoni che assegna loro i “posti” e li rifornisce di cani che li aiutino nel commuovere i cittadini. Comunque è pronta la soluzione. Basta togliere i cani agli accattoni e nessuno mollerà più una lira. Perché poi il problema è quello: non bisogna fare l’elemosina agli accattoni che tanto ci pensa lo Stato a fornire loro cibo e tetto. E i cani? Chissenefrega. Adesso c’è Draghi e ci penserà lui.
…e, in occasione dei festeggiamenti per un anniversario importante, scrissi un articolo sul Fatto Quotidiano in cui raccontai i miei tre mesi alla Repubblica. Questo:
C’ero anche io. Si c’ ero anche io. Nella storia del giornalismo italiano io posso essere ricordato come uno dei fondatori della Repubblica. Avevo 32 anni. Ero un ragazzino, promettente ma ragazzino. E per di più disoccupato. Un tipo precoce, insomma. Avevo cominciato a fare il giornalista nel 1968, a Panorama. Dopo sei anni mi ero montato la testa ed ero andato a dirigere Abc. In pochissimo tempo avevo trasformato il settimanale del divorzio e delle tette in un organo di estrema sinistra.
Un disastro. Assunsi Lidia Ravera, Saverio Tutino, Giulio Mastroianni, Guido Passalacqua… Non ci volle molto: l’ attacco ai carabinieri, l’ articolo di Renato Curcio latitante e il tracollo delle copie. Il passo inevitabile fu la chiusura. Ma io ero uno dei pupilli di Lamberto Sechi, il mitico direttore di Panorama. Panorama era di Mondadori e Mondadori era il 50 per cento di Repubblica. Ricordo ancora come fosse ieri Eugenio Scalfari che venne a Milano ad assumermi e mi fece vedere il progetto, per convincermi.
Io mi sarei fatto convincere anche se mi avesse mostrato 64 pagine vuote. E accettai ancora prima che me lo chiedesse. Capo servizio dello sport. Era il novembre del 1975. Cominciammo a lavorare al progetto e poi, tra il dicembre e il gennaio, cominciammo a realizzare i numeri zero. Mai nessun giornale è nato con un numero così incredibile di numeri zero. Mi sembra che ne facemmo venti. Unico caso al mondo. Erano numeri del tutto normali, raccolta delle notizie, articoli di fondo, interviste. Era un dramma.
Facevamo interviste vere.
Andavamo da un politico, da un vip, da un calciatore, gli sfracassavamo i maroni per un’ oretta e alla fine lui giustamente ci chiedeva: “Quando uscirà l’ intervista?”. E noi dovevamo confessargli: “Non uscirà mai”.
A me piaceva il progetto di Repubblica. Per me non era abbastanza di sinistra ma potevo accontentarmi vista l’aria che tirava nei quotidiani italiani. E poi ci lavoravano tanti miti del giornalismo di allora. Per lo più socialisti ma erano di sinistra i socialisti, allora. Io lavoravo nella redazione milanese.
Proprio di fronte alla mia c’era la scrivania di Massimo Fini che ha raccontato in maniera fantastica il suo disagio l’altro ieri su queste stesse pagine. L’imbarazzo di Massimo potevamo leggerglielo in faccia. Non era il giornale per lui. Lui era un anarchico. Per vedere quanto stava male bastava osservarlo alla scrivania. Sembrava una pecora triste, sofferente, abbacchiata.
Non mi meravigliai quando ci disse che se ne andava. La Repubblica non aveva superato il periodo di prova. Quei tre mesi furono entusiasmanti, ma anche molto incasinati. Io ero capo servizio dello sport ma dopo qualche giorno mi dissero che lo sport non c’ era. La redazione era molto radical chic e lo sport, allora, non era né radical né chic. “E io?”, chiesi. Per farmi stare buono Scalfari mi disse che mi promuoveva vicecapo della redazione milanese.
Le cose funzionavano così: ogni due o tre giorni io e Gianni Locatelli, il capo della redazione milanese, prendevamo l’ aereo e andavamo a Roma per la riunione di redazione. La riunione di redazione era la classica messa cantata, però al contrario degli altri giornali la messa non era celebrata dal parroco ma dal papa in persona, Eugenio.
Parlava quasi solo lui, con incedere lento e pensoso.
Mentre parlava oscillava la testa a destra e a sinistra. Noi tutti eravamo lì ad ascoltarlo in adorazione. E se decidevamo di prendere la parola (io no, lo giuro, io non ho mai parlato, mai) lo facevamo oscillando anche noi la testa a destra e a sinistra. Ogni tanto squillava il telefono. Era il presidente del Consiglio, il segretario della Dc, il presidente della Repubblica.
Eugenio partiva con una sottile analisi della situazione politica e noi lì ad ascoltarlo, in religioso silenzio mentre ammaestrava i suoi interlocutori. Poi si decideva che cosa avremmo dovuto mettere sul numero zero dell’ indomani. L’ indomani sul numero zero non c’ era nulla di quello che avevamo deciso. Allora, pazientemente, Gianni Locatelli telefonava a Eugenio ed Eugenio gli spiegava che “caro, è vero, avevamo deciso diversamente ma poi la sera siamo andati da Marta e nel dopocena, chiacchierando, abbiamo deciso di cambiare tutto”.
Sospetto che sia stato in un dopocena da Marta che fu decisa la morte dello sport e che sia stato in una serata analoga che fu decisa la resurrezione dello sport. Quando Eugenio mi comunicò la resurrezione dello sport io dissi: “Bene, e chi lo fa?”. Risposta: “Tu”. Ed io dissi: “Io no, io sono stato promosso vicecaposervizio della redazione milanese, non puoi retrocedermi a capo dello sport”.
Ero un ragazzino sprovveduto e rompicoglioni. Cominciai a sbuffare. E quando, dopo tre mesi dal primo numero, un gruppo di dissidenti dell’ Espresso, capitanato da Lino Jannuzzi e Carlo Gregoretti, abbandonò i vecchi amici per andare a rifondare Tempo Illustrato, io andai con loro. Una decisione imbecille.
Ero un ragazzino rompicoglioni e avventato. Mi bastarono pochissimi giorni per capire la sciocchezza che avevo fatto. Telefonai a Gigi Melega, il redattore capo, mio grandissimo amico, e gli dissi: “Gigi, vengo a Roma a piedi con il capo cosparso di cenere e i ceci sotto le ginocchia. Devi dire a Eugenio che gli chiedo scusa e voglio tornare”.
Gigi era simpatico, generoso e anche molto ottimista. Mi disse: “Claudio, non preoccuparti, vado a dirglielo subito, aspetta al telefono, non attaccare e prepara la valigia”. Rimasi al telefono e sentii i suoi passi, tip tip tip, raggiungere l’ ufficio accanto. Dieci secondi. Gli stessi passi, tip tip tip, lo riportarono indietro. Pensai: “È fatta”. Gigi prese la cornetta in mano. Io, ansioso: “Che cosa ha detto?”. E Gigi: “Ha detto: neanche morto”.
Eugenio era fatto così. Era rancoroso, permaloso, malmostoso. Se l’ era legata al dito. Voglio raccontare un episodio. Un giorno dalla segreteria arrivò un messaggio: “Il grande capo Dalla Chiesa vuole parlare con te”. Lui, presuntuoso com’ era, capì “il grande capo della chiesa” e pensò che il Papa volesse parlargli.
Passò i giorni seguenti chiedendo a tutti come avrebbe dovuto vestirsi per l’ evento. Fu talmente insistente che i colleghi capirono l’ equivoco e dovettero spiegargli che lo aveva invitato il generale, non il pontefice. Eugenio, scusami, non avrei dovuto raccontare l’ episodio. Ma sono permaloso anch’ io e me la sono legata al dito.