LOL vuol dire “ridere a crepapelle”, “morire dal ridere”, o più semplicemente “tante risate”. Se volessimo perdere tempo e dirla tutta, Lol significa forse “laughing out loud”, o magari “lots of laughs”. Dico forse perché nessuno lo sa veramente. E’ linguaggio internet e perde ogni riferimento con le sue origini. Tanto che ormai qualcuno lo usa per “lots of love” o meglio ancora per “lots of luck”. Di sicuro c’è che quando mandate un messaggino con una battuta spiritosa ad un amico, se l’amico vi risponde “lol”, vuol dire che la battuta gli è piaciuta molto. Ma anche no. Perché internet è fatta così. Esagera qualsiasi cosa. E’ normale ormai seminare l’etere di falsi like e di dichiarazioni di malposta amicizia. Tutto oltre misura. “Ho cinquemila amici”. Ammazza oh. E dove li metti il giorno del tuo compleanno? Scrivere “lol” non costa nulla anche se non è vero. In realtà anche scrivere “lots of laughs” costerebbe poco. E di tempo ne abbiamo. Che senso ha risparmiare nove caratteri? Ma scrivere “lol” fa più fico, fa appartenenza, comunità. Per i patiti di instagram, di twitter, di telegram la comunità è tutto.
Fine del pippone, che mi serviva solo
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ROSARIOFIORELLO
QUALCUNO HA UN PO’ DI CONCIME?
LOREDANABERTÉ
PIT STOP: CAMBIO GOMME
MAXGAZZÈ
COLPA DEL COVID: BARBIERI CHIUSI
ACHILLELAURO
SONO USCITO DI CASA CON LA PRIMA COSA CHE HO TROVATO NELL’ARMADIO
da Muin Masri
Mi piace rileggere sia le interviste che ho fatto che quelle che mi hanno fatto. E siccome penso che quello che piace a me piaccia anche a voi, le ripubblico, un po’ per volta. Questa è quella che mi fece Antonella Bersani, per “Punto Com”. Era il 27 giugno 2004.
Claudio Sabelli Fioretti è i suoi capelli. Ricci, voluminosi, anarchici. Il biglietto da visita di un giornalista che ha girato 14 giornali, collezionato cinque direzioni, fughe, licenziamenti e ritorni. Sabelli Fioretti ha affrontato di petto le sue battaglie, pagato in prima persona. Con due soli rimpianti: il quotidiano del gruppo Espresso e la mazzetta dei giornali gratis: “Partecipai alla fondazione di Repubblica, ma fui sedotto dal progetto di Tempo Illustrato e la abbandonai. Lasciare Repubblica, che cazzata!”.
Mai vista una cosa del genere. Sinceramente: anche io sono rimasto colpito dagli applausi che i dipendenti e i funzionari di Palazzo Chigi, dalle finestre della Presidenza del Consiglio, hanno riservato all’ex premier Giuseppe Conte che se ne tornava, almeno apparentemente, alla vita civile tenendo per mano la sua compagna Olivia, mentre Rocco Casalino addirittura piangeva. Mai vista una cosa del genere. Tempo poche ore, la frase l’ha pronunciata Danilo Toninelli. E allora ho cominciato a pensare che c’era qualcosa che non funzionava. Quello che dice Danilo Toninelli, per definizione, è incerto. Va controllato. E così ho scoperto la verità, grazie all’ottimo Sebastiano Messina il quale, essendo giornalista, è andato a controllare, forse anche lui messo in sospetto dall’intervento entusiasta di Danilo Toninelli. Non ci voleva tanta fatica. Bastava entrare nell’archivio dell’Ansa. Ed ecco allora riemergere gli applausi rivolti, 22 anni fa, a Romano Prodi che se ne andava dopo aver consegnato la campanella nelle mani di Massimo D’Alema, primo ex comunista presidente del consiglio. Inedito assoluto. Forse. Mai giurarci. Ma se Danilo Toninelli, allora ventiquattrenne, lo avesse detto in quella occasione, sarebbe stato perdonabile. Ma oggi no. Perché l’inedito assoluto si è ripetuto ancora qualche volta, o per meglio dire, sempre. Quasi sempre. I dipendenti e i funzionari di palazzo Chigi si sono affacciati alle finestre ed hanno calorosamente applaudito Giuliano Amato, Romani Prodi (inedito assoluto, due volte applaudito) Silvio Berlusconi, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. I dipendenti e i funzionari di Palazzo Chigi sono di bocca buona, un applauso non lo negano a nessuno. Come anche, ormai, è diventata imbarazzante e scandalosa prassi quella di battere le mani durante i funerali al passaggio della bara con annesso defunto. Ma forse questa è una similitudine che non era il caso di fare.
Matteo non se ne fa una ragione, non riesce più a fischiare alla pecorara.
Mi sono addentrato nei meandri di Clubhouse e sono rimasto intrappolato. Io che quanto a social sono alle elementari (non sono riuscito ad andare oltre Facebook, che mastico ancora con grande difficoltà) di fronte alla Casa del Club (o al Club della Casa?) sono rimasto estasiato. Non ho ancora ben capito a che cosa serva, come funzioni esattamente, come si faccia ad entrare e come si faccia ad uscire, ma mi affascina. Sto ore ad ascoltare senza avere il coraggio di parlare. Vado da una stanza all’altra. Incontro Rosario Fiorello, Andrea Delogu, Gianluca Neri, Luca Bizzarri. Chiacchierano, urlano, ridono, ridono, ridono. Si chiamano tutti per nome ed io quando sento Eugenio che chiama Francesco penso che sia Scalfari che chiama il Papa. Dropping name, il linguaggio dei potenti. Dallo schermo arriva una voce di qualcuno che si è accorto che sono tra il pubblico. Mi dice: “Claudio, entra alza la manina”. Ma io codardo mi nascondo, faccio finta di non aver sentito, volto lo schermo dall’altra parte, tossicchio e alla fine spengo tutto. Quindici secondi dopo di nuovo lì. Rientro di soppiatto, sperando che nessuno se ne accorga. Sono un guardone.
L’importante non è vincere, ma nemmeno partecipare. L’importante è guardare.