L’INTERVISTA: STORIA, TECNICHE ED EVOLUZIONE DI UN GENERE GIORNALISTICO

[Tesi di Laurea di Massimo Costa - 2005]

 

Indice

 

Introduzione                                                                                         

 

Capitolo 1

 Definizione di intervista e sua evoluzione storica

1.1  Che cos’è l’intervista                                                                             

1.2  L’evoluzione storica dell’intervista                                                      

 

Capitolo 2

Tipologie e classificazioni dell’intervista

2.1 Perché si leggono, si chiedono e si rilasciano le interviste                  

2.2 Le tipologie di intervista scritta                                                           

2.3 L’intervista e la notizia                                                                          

2.4 L’intervista nei settori del giornale                                                       

2.5 L’intervista immaginaria                                                                       

2.6 Stampa e televisione: come cambia l’intervista                        

2.7 Lo specifico della radio                                                                        

2.8 Vere e false interviste                                                                            

 

Capitolo 3

La tecnica giornalistica dell’intervista

3.1 Ottenere l’intervista                                                                              

3.2 La preparazione                                                                                    

3.3 L’incontro con l’intervistato                                                                 

3.4 Registratore e block notes                                                                    

3.5 La rielaborazione                                                                                  

3.6 Far rileggere l’intervista?                                                                      

3.7 Che cosa rischia il giornalista                                                               

 

Capitolo 4

L’intervista attraverso quattro autori

4.1 Oriana Fallaci                                                                                        

4.2 Roberto Gervaso                                                                                             

4.3 Alain Elkann                                                                                         

4.4 Claudio Sabelli Fioretti                                                                     

 

Capitolo 5

Un’interpretazione semiotica del genere

5.1 Intervista ad Armando Fumagalli                                                        

 

Appendice

Conversazione in chat con Claudio Sabelli Fioretti                                                                                         

 

Bibliografia                                                                                         

 

 

Introduzione

 

Questa tesi nasce dal desiderio di esplorare una tecnica tanto diffusa quanto sottovalutata da manuali e libri dedicati al giornalismo. Nei testi specialistici all’intervista si dedicano sempre poche pagine, quando invece si potrebbe parlare per volumi interi dell’affascinante pratica di scavare nella psicologia e nel carattere delle persone.  Così, grazie al prezioso aiuto del prof. Santambrogio, ho cercato di analizzare  il genere giornalistico dell’intervista con un occhio particolare alla sua storia, alla tecnica e agli stili di alcuni intervistatori tra i più famosi. Per evitare di perdere la bussola, abbiamo privilegiato l’intervista scritta con le sue regole e le sue trappole, anche se non abbiamo dimenticato né l’intervista televisiva né quella radiofonica.

Il lavoro è partito da una conversazione primaverile con il giornalista Enzo Magrì, il quale grazie alla sua grande esperienza mi ha fornito le coordinate essenziali per orientarmi nel marasma di nomi, date, giornalisti e riferimenti da non trascurare. Poi mi sono dedicato alla ricostruzione storica del genere, individuando alcuni punti fondamentali che hanno permesso all’intervista di diventare una pratica così abituale.

Con l’ausilio della ricerca di archivio e il supporto di alcuni testi di giornalismo ho provato inoltre a comporre una classificazione plausibile delle tipologie di intervista in base alla forma, al contenuto e al mezzo di comunicazione utilizzato.

Nel terzo capitolo si analizzano i vari momenti dell’incontro con l’intervistato, dalla indispensabile preparazione fino alla rielaborazione.

Di grandi intervistatori ce ne sarebbero tanti, ma per motivi di spazio abbiamo deciso di analizzare sistematicamente lo stile di quattro autori: Oriana Fallaci, Roberto Gervaso, Alain Elkann e Claudio Sabelli Fioretti. Con quest’ultimo ho avuto anche la fortuna di dialogare via chat una domenica sera: dalla sua disponibilità è nata un’intervista utilissima alla tesi che abbiamo voluto inserire integralmente in appendice.

Un'altra persona che è stata fondamentale per la realizzazione della tesi è stata Stefano Lorenzetto, giornalista del Giornale che considero attualmente l’interprete migliore dell’intervista scritta. Alla richiesta di informazioni per la tesi mi ha inviato i suoi appunti di un intervento che aveva fatto al Master Mondadori sull’intervista, e ha gentilmente risposto telefonicamente a tutti i miei dubbi e alle mie domande con grande cortesia.

Nelle ultime pagine della tesi propongo un’interpretazione semiotica del genere dell’intervista attraverso le parole del professor Armando Fumagalli della nostra Università.

Proprio in Università Cattolica è intervenuto qualche mese fa Beppe Severgnini, il quale ci ha parlato anche dell’intervista giornalistica; successivamente mi ha indicato personalmente alcune delle sue interviste più significative.

Il risultato è un testo scaturito dall’analisi meticolosa di numerose interviste del passato e del presente, da un lungo lavoro in biblioteca per recuperare vecchi dialoghi, dalla visione di alcune interviste televisive e dalle conversazioni con i giornalisti professionisti.

La parte più affascinante del lavoro è stata proprio la possibilità di entrare in contatto con alcuni intervistatori che mi hanno aiutato con la loro esperienza e professionalità.

Li ringrazio tutti con la speranza un giorno di poter imparare anch’io qualche segreto della “cosa più bella e difficile del mondo”, come l’ha definita Gianni Minoli: fare un’intervista.

 

CAPITOLO 1

 

DEFINIZIONE DI INTERVISTA E SUA EVOLUZIONE STORICA

 

1.1 Che cos’è un’intervista?

 

Quando si scorrono le pagine dei  manuali di giornalismo, e si leggono le poche righe da essi dedicati all’intervista, ci si imbatte spesso nella frase di Leo Longanesi[1]: “L’intervista è un articolo rubato”. Nel senso che è un pezzo fatto da un'altra persona, l’intervistato, di cui si riportano le dichiarazioni così come vengono dette. Per questo motivo l’intervista è descritta ironicamente come un genere giornalistico all’apparenza semplice nella preparazione e nella elaborazione.

Scrivere un’intervista per i giornali, realizzarla per la radio o la televisione  può davvero sembrare facile: a una serie di domande corrisponde una serie di risposte. I lettori ormai sono abituati ogni giorno a trovare numerose interviste sui quotidiani, e a vedere tante persone – dai massimi esperti fino ai passanti - interpellate dal cronista televisivo di turno sui più disparati argomenti. Spesso può apparire anche una pratica ripetitiva se non banale: non si fatica a trovare intervistatori che fanno domande sciocche e ottengono risposte altrettanto sciocche o banali.

In  realtà l’intervista “è la forma di comunicazione giornalistica più tecnica, il caso più limpido in cui la notizia è ciò che ne fa il giornalista”[2].

Ha delle regole da seguire che però da sole non garantiscono il successo; richiede equilibrio, caparbietà, distacco; ancora, è un “mestiere” che si impara con l’esperienza.  Bisogna confrontarsi ogni volta con interlocutori sempre diversi, avendo la consapevolezza che una parola di troppo, un’insicurezza, un’imprecisione possono indispettire l’intervistato e mandarla all’aria da un momento all’altro. Per questo l’intervista è un’esperienza di fronte alla quale ciascun giornalista ha il proprio modo specifico di comportarsi, acquisito negli anni anche attraverso gaffes e  insuccessi.

Mario Furlan, collaboratore del Giorno e di altre testate nazionali, sostiene che l’intervista “è un colloquio in presa diretta tra un giornalista e un interlocutore che lo ha accettato conoscendone gli scopi: rendere pubbliche le risposte” [3].

Il giornalista Sergio Lepri, direttore dell’agenzia ANSA dal 1961 al 1990, riprende e approfondisce questo concetto: “E’ una definizione onesta, contraddetta però da alcuni modi in uso da qualche tempo e un po’ truffaldini: trasformando in intervista una conversazione casuale o una dichiarazione che viene interrotta dalle domande; oppure fingendo che sia intervista esclusiva al giornalista quella che in realtà è una conferenza stampa fatta con più giornalisti”[4].

Le trappole sono all’ordine del giorno, e c’è sempre il rischio di un uso inflazionato e sbiadito. L’esperto Furio Colombo, ex direttore della Stampa e attualmente direttore dell’Unità, arriva ad una conclusione lapidaria: “L’intervista è lo strumento giornalistico più arrischiato e imperfetto; dovrebbe avere il ruolo che ha la chirurgia per la medicina: qualcosa a cui si ricorre se non ci sono altre soluzioni”[5].

Un faccia a faccia che a volte si trasforma in un confronto serrato, altre volte diventa una conversazione rilassata. Durante un’intervista entrano in gioco molti fattori che la indirizzano verso i binari della originalità, della prevedibilità o addirittura della noia.

Ma che cosa intendiamo quando parliamo di intervista?

I dialoghi di Oriana Fallaci con i potenti della terra, i faccia a faccia nottambuli di Marzullo, le conversazioni radiofoniche con gli scrittori, le domande dei telegiornali ai passanti sulle tendenze dell’estate, le dichiarazioni giornaliere dei nostri politici: queste sono tutte interviste, anche se alcune sono più nobili di altre.

Il giornalista Gianni Minoli si è affermato negli anni grazie alle sue interviste televisive,  nel programma Mixer da lui ideato e trasmesso negli anni ’90 su Rai2. Nella prefazione alla raccolta di interviste Tipi Italiani di Stefano Lorenzetto, giornalista del Giornale, ha scritto così:

 “Fare un’intervista è la cosa più bella che ci sia perché dalla dialettica tra due esperienze (dell’intervistatore e dell’intervistato) nasce inevitabilmente una terza esperienza, quella dell’incontro, e dunque, di un arricchimento umano, psicologico, culturale”[6].

 

Paul Mc Laughlin, è produttore, ricercatore e intervistatore per la CBC, la radio di stato canadese. Insegnante di giornalismo al Ryerson Polytechnical Institute of Toronto, definisce l’intervista “un’arte: una complicata disciplina che fonde preparazione e spontaneità in un cocktail forte e talvolta pericoloso. Come ogni forma d’arte, si può praticare a diversi livelli, a seconda del talento innato, del duro lavoro e della creatività di chi la esercita”[7].

Nonostante sia una affermazione forte, non è priva di fondamento se proviamo a considerare l’etimologia del termine “intervista”: il vocabolo italiano è un calco dell’inglese interview, il quale deriva a sua volta dal francese “s’entrevoir”, cioè “vedersi reciprocamente”.

Il segreto principale dell’intervista risiede in questa opportunità straordinaria per l’intervistatore: conoscere se stesso attraverso la scoperta delle idee altrui.

 

1.2 L’evoluzione storica dell’intervista

 

Un primo antenato

Gli uomini si sono sempre fatti delle domande. Sul mondo che li circonda, su loro stessi, sulla propria origine e il proprio destino. Non stupisce quindi che nel giornalismo si sia diffusa progressivamente la tendenza a porre delle domande. Il dovere di informare implica la ricerca delle informazioni, e per forza di cose qualsiasi articolo di cronaca è composto anche da domande a  persone, testimoni o esperti: tasselli indispensabili per comporre  il mosaico della notizia.

Il giornalismo è riuscito a far sua questa tendenza dell’uomo a formulare domande, sfruttata prima di tutto dalla filosofia. Lo sostiene Furio Colombo: “L’intervista ha una origine nobile, filosofica e letteraria, ha la sua radice in tutta la catena di dialoghi che hanno segnato la storia del sapere”[8].

Enzo Magrì, giornalista e inviato dell’Europeo negli anni ’70, per il quale ha scritto centinaia di interviste, ne spiega la nascita: “L’intervista è stata sicuramente inventata da Platone, attraverso il diario filosofico elevato a genere letterario; il giornalismo ne ha fatto poi   largo uso durante la sua storia”[9].   

Il filosofo di Atene (427-347 a.C), dunque, creò il modello ineguagliato di dialogo filosofico, e si può considerare il precursore di quella che sui giornali diventerà l’intervista. Platone scelse l’uso del dialogo perché tramite questa struttura narrativa era più facile veicolare i concetti filosofici del suo maestro Socrate, protagonista dei suoi scritti più famosi. Il vocabolo dialogo, dal greco dialogos, deriva dalla radice dia (attraverso) e dal verbo léghein (parlare e pensare insieme): già in origine conteneva l’idea di un confronto tra due persone, al fine di migliorare la conoscenza sulle cose. Nella parola tra l’altro è compreso anche il termine logos, cioè discorso.

I lettori avrebbero avuto una maggiore difficoltà a comprendere i precetti socratici se fossero stati scritti in forma di monologhi: ecco perché Platone affianca al suo maestro dei personaggi che di volta in volta gli fanno da spalla interrogandolo sui temi a lui più cari. Certo, queste figure sono strumentali alla narrazione, non hanno le conoscenze del filosofo e in certi casi sembrano sprovveduti (proprio come certi giornalisti che non si preparano prima delle interviste).

Questi antenati delle moderne interviste esprimono, attraverso il rapido susseguirsi di domande e risposte, la tecnica filosofica della  maieutica: la capacità di  tirar fuori man mano i concetti e le idee dell’interlocutore facendolo ragionare con le giuste domande.

Ad esempio nel Critone (scritto tra il 396 e il 388 a.C.) l’ amico fidato di Socrate, che dà il titolo all’opera, lo visita in carcere il giorno prima della sua condanna, proponendogli la fuga in esilio al posto della morte.  Dal rifiuto del filosofo nasce un dialogo sui  temi della morte, della virtù e della giustizia. Ovviamente non c’è una trascrizione di frasi realmente dette, e l’ordine della conversazione risponde alla costruzione narrativa. Mediante le domande, le obiezioni e le argomentazioni, il personaggio Socrate illumina la coscienza di Critone.

Socrate: Si tratta dunque di apprezzare le opinioni buone, ma non quelle cattive?

Critone: Sì

E buone non sono forse quelle degli uomini saggi, cattive quelle degli stolti?

E come no?…

Ora dimmi come la mettevamo su quest’altro punto… Uno che si dedica specificamente alla ginnastica fa attenzione all’elogio, al biasimo e all’opinione di chiunque o solamente di un medico o un istruttore?

Solamente di costui.

 Dunque è il caso di temere i rimproverare o gradire gli elogi di quello solo, non della gente in genere.

Chiaro.

Dovrà allora comportarsi e far ginnastica, e mangiare e bere, seguendo le direttive di quell’unico che è esperto e ci capisce, piuttosto che di altri.

Proprio così.

Bene… E se d’altro canto a quell’unico vorrà disubbidire opinioni ed elogi e privilegiando quelli della gente, che pur non ne capisce niente, non ne risentirà alcun danno?

E come no?

E che tipo di danno? Dove tende, a quale parte della persona del  disubbidiente?

Ma è chiaro, al corpo: è questo, che ci rovina.

Giusto[10].

 

L’ingresso dell’intervista nel giornalismo

Il genere giornalistico dell’intervista fa la sua apparizione in America, paese anticipatore delle più importanti trasformazioni della professione giornalistica.

Il primo esempio esce sul  Paul Pry di Washington nel 1831. E’ un pezzo scritto dal direttore Anne Royall, che rielabora e riassume le risposte del presidente degli Stati Uniti John Quincy Adams. La giornalista lo incontrò sulle rive del fiume Potomac, dove Adams andava spesso a nuotare, e lo sottopose ad una serie di domande restandosene tranquillamente seduta vicino a lui.

La Royall non ricorre alle virgolette come segno di un pensiero e di parole riportate fedelmente dall’intervistato: questo espediente nasce qualche anno più tardi, tra il 1859 e il 1869. Sulla data esatta è ancora in corso una disputa tra due scuole di pensiero.

Felice Cunsolo nel Giornale dell’Ottocento opta per la prima data con riferimento al giornalista Horace Greeley; l’Oxford Dictionary invece (citando la Westminster Gazette del 1897), considera il giornalista Joseph McCullagh di Sant Louis l’inventore della moderna intervista nel 1869.

Il genere ha subito fortuna in area anglosassone, se nel Dicembre di quello stesso 1869 sul Sun escono interviste a “Corbin, Fisk…and whoever else has any story to tell are axe to grind”,[11] e il Daily News riporta sulle sue pagine una considerazione sulla nuova tendenza americana: “A portion of the daily newspapers of New York are bringing the profession of Journalism into contempt, so far as they can, by any kind of toadyism or flunkeyism, which they call “interwieving”[12]. 

Ben presto sui giornali si afferma anche l’aspetto contraddittorio dell’intervista, ed emergono le denunce dei suoi limiti. Sull’ American Review del 1878 si legge infatti che “l’intervistato muta facilmente le proprie opinioni con grande  facilità. Sulla Pall Mall Gazette del 1886 si legge addirittura che  “The interview it is  the worst feature of the new sistem. It is degrading to the interviewer, disgusting to the interviewed, and tiresome the public”[13].

In Italia è difficile stabilire con precisione, in assenza di uno spoglio sistematico dei quotidiani ottocenteschi, l’anno esatto in cui il genere dell’intervista venne introdotto per la prima volta: gli unici riferimenti sono demandati alla memorialistica.

Possiamo individuare come punto di partenza l’inchiesta di Carlo Romussi per Il Secolo, in occasione di un’inondazione del fiume Po avvenuta nel 1879. Questi articoli presentano alcuni momenti dialogici nei quali il giornalista intervista sindaci e visita villaggi abbandonati raccogliendo racconti e testimonianze per ricostruire le cause del disastro.

Nel nostro Paese il genere dell’intervista trovò subito resistenze e ironie, come si evince da alcuni passi del libro Il Ventre di Milano. Qui si legge che i giornalisti “usano questo espediente per tirare innanzi nella concorrenza. Hanno inventato – copiando gli americani - l’interviewage. I reporters non bastavano. Ci volevano anche gli intervistai”.[14]

Manca una definizione precisa dei giornalisti dediti a tale tecnica (gli “intervistai”), e l’autore non esita a elencare i limiti e le problematiche di queste prime interviste nei giornali italiani:

“L’interviewage non vale qualcosa a patto di riportare le risposte di quegli uomini illustri per ingegno o per avventure, che essi non sono obbligati di nascondere. (…) È difficile il dire se sono più coraggiosi costoro che si presentano sconosciuti alla notorietà diplomatiche, tentando di cavar loro i calcetti o se sono più ingenui le notorietà che non li mettono alla porta. La maggior parte dei giornali fingono l’intervista diplomatica e inventano il dialogo più o meno spiritosamente. Ma se non lo fingono peggio ancora”.[15]

 

La disamina linguistica conferma il sospetto radicato in Italia intorno all’intervista: un po’ tutti i vocabolari la bollano come “gemma gallo-italica”, a partire dal Fanfani-Arlia del 1877.

Ferdinando Martini, governatore dell’Eritrea a fine secolo, finì addirittura nei guai per una intervista concessa ad un corrispondente del quotidiano La Nazione di nome Errera. Nel suo Diario Eritreo (1898), Martini racconta che questa conversazione, definita anche “intervista” o “colloquio confidenziale”, provocò un  immediato telegramma del presidente del Consiglio Di Ridunì il quale lo invitava “a dirgli se vera la mia intervista con l’Errera e se si può smentirla per tranquillizzare gli amici”[16].

L’intervista, nonostante le diffidenze, comincia lentamente a diffondersi come genere giornalistico.

Umberto Notari, giornalista-scrittore e personalità geniale di inizio ‘900, vende 209mila copie con il suo romanzo Quelle signore, costruito come reportage tra le signorine della case chiuse intervistate dall’autore.

Secondo il Dizionario biografico del 1904, Notari è “il primo e unico intervistatore che vanti la stampa cosmopolita. Ha avuto colloqui con tutte le celebrità della terra, del mare e del cielo. (…) Dovunque gli sia dato di trovare il suo uomo o la sua donna, Carducci o Lina Cavalieri, Guglielmo Marconi, Santos Dumont o Yvette Guilbert l’abboccamento è fatto e una colonna di scintillante dialogo ne è la conseguenza inevitabile”[17].

 

Il “Giornale d’Italia” di Bergamini

In Italia il primo giornalista a usare le interviste in modo sistematico è Alberto Bergamini, direttore del quotidiano Giornale d’Italia dal 1901 al 1903.

Ha il merito di rivoluzionare il modo di fare giornalismo nei quotidiani: inventa la terza pagina culturale in occasione della “Francesca da Rimini” al teatro Costanzi di Roma nel 1901, pubblica numerose inchieste, lancia la corrispondenza con i lettori e inserisce in prima pagina le interviste. Il risultato è un “giornale di tutte le cose gravi, serie, e anche oziose”. Il Giornale d’Italia di Bergamini si presenta così: quattro fogli, un formato lenzuolo e sei colonne per pagina dove sono collocate una sopra l’altra le notizie. Il 19 Novembre 1901  troviamo nel terzo numero del giornale la prima intervista, collocata  in prima pagina, nella parte alta della seconda colonna. Viene intitolata “Intervista a Santos Dumont”: si tratta di un colloquio di poche righe, riportato in forma indiretta, con il famoso aeronauta. Il breve articolo di una trentina di righe non è firmato e inizia così:

“Ci telegrafano da Montecarlo, 18 Nov: Ho parlato lungamente con Santos Dumont che venne qui per i preparativi del suo nuovo e ardito cimento Mi spiegò il nuovo tragitto che egli si propone di compiere…”.[18] 

 

Nel pezzo telegrafato spicca la deferenza e il rispetto con cui l’inviato tratta il personaggio. Non ci sono virgolette, piuttosto è un racconto in terza persona (“Egli costruisce/ Egli attraverserà il Mediterraneo”) senza alcuna chiosa, commento o opinione dell’intervistatore.

All’inizio del pezzo si comunica ai lettori che si tratta di un’intervista giunta al giornale via telegrafo, scaturita da una breve conversazione con Dumont. Durante il biennio della direzione Bergamini le interviste in prima pagina guadagnano sempre più spazio fino a occupare quasi tre colonne con l’intervista a Marconi del  5 Febbraio 1902 (sottotitolo: La vittoria della telegrafia senza fili – Una scommessa di Guglielmo Marconi – i benefici della nuova invenzione – L’Italianità di Marconi).

Si passa dai colloqui con personaggi di spicco come il capo del ministero belga, il Cardinal Ferrari, il socialista Filippo Turati e la regina Natalia, alle conversazioni con i protagonisti dei fatti di cronaca come il bandito Musolino: chi spende i suoi 5 centesimi per acquistare il Giornale d’Italia trova ogni giorno in prima pagina un’intervista autorevole sui temi d’attualità.

 

 

Pur variando in ampiezza e importanza dell’intervistato, possiamo individuare alcuni tratti comuni alle interviste del Giornale d’Italia nel biennio 1901-03:

 

a) Lo stile colto e letterario, che ha influenzato il nostro giornalismo sin dalla nascita: le interviste sono dirette ad un ristretto pubblico di elite.

“Mentre Guglielmo Marconi mi parlava così, io lo guardavo con stupore indicibile. Mi pareva che il suo volto si trasfigurasse, che sotto la gelida maschera dello scienziato apparisse allora soltanto la figura del filantropo”[19].

 

b) C’è sempre una introduzione che presenta il personaggio e descrive l’occasione nel quale l’incontro è avvenuto.

“Ho potuto avere al Grande Hotel un colloquio con senatore Tsudzuki, persona di finissima conversazione e d’una intelligenza e larghezza di vedute che molti uomini politici d’altri paesi potrebbero invidiare”[20].

 

c) L’autore evita di esprimere commenti e opinioni, e esplicita questo proposito nell’articolo riporterà fedelmente il contenuto del dialogo, come nel colloquio con il brigante Musolino, del 7 Gennaio 1902:

“Vi comunico fedelmente le sue impressioni senza aggiungervi niente di mio”.[21]

 

d) L’intervistato è sempre trattato con rispetto ed ossequio, soprattutto se personalità nobile o influente o della aristocrazia.

Riportiamo come esempio l’intervista al conte de Bulow, 2 Aprile 1902:

“Il conte de Bulow, cancelliere di Germania, mi ha fatto l’onore di ricevermi e ha avuto la cortesia di rispondere ad alcune domande che mi sono permesso di rivolgergli”[22].

 

Oppure nell’intervista alla regina Natalia del 5 Maggio 1902:

 “La regina mi parlava nel mezzo della sala azzurra appoggiata ad un  tavolo, in attitudine graziosa e priva di affettazione. Sa di esser ancora bella: mirandola sotto la luce discreta del grande lampadario di Venezia che pioveva sulla figura di lei, compresi come ella sentisse l’affetto che la sua figura produce nell’intervistatore.

 

e) Se oggi si presume che il rapporto tra intervistato e intervistatore sia di parità, al tempo non era così.  Lo si vede bene nell’intervista al maggiore Nerazzini, del 30 Maggio 1902:

“Non era il caso di turbare le sue prime ora della dolce intimità domestica con inopportune conversazioni. Tuttavia il maggiore Nerazzini non si rifiutò di rispondere ad alcune mie domande”. Dopo un introduzione così naturalmente non leggeremo domande scomode o impertinenti. Già tanto che il console abbia voluto rispondere…

 

f) La forma indiretta viene presto soppiantata da quella diretta. Dal punto di vista grafico si alterna, per le risposte, l’uso del trattino a quello del virgolettato

 

g) Le domande sono brevi e lasciano il più delle volte ampio spazio alle risposte

 

h) La concessione dell’intervista è vissuta come un fatto straordinario dai giornalisti, sentite come si conclude quella con Marconi: “Ed il nostro colloqui, di cui serberò indimenticabile ricordo, ebbe fine”. 

 

Inoltre dobbiamo considerare il periodo di inizio secolo della direzione Bergamini: l’intervista è ancora guardata con sospetto, e non è ancora un genere sdoganato. Vittime di pubblicazioni di conversazioni informali o di tranelli, alcuni intervistati hanno paura di parlare con i giornalisti temendo di essere complici di chissà quale misfatto. 

Questo accade ad esempio nell’intervista al Conte Voinovich:

Dunque volete proprio intervistarmi?

Se vi piace meglio faremo un po’ di conversazione.

Il che è quanto dire intervistarmi…

Come volete. E comincerò col domandarvi quale scopo ha la sua missione in Vaticano. È una missione politica?[23]

 

La persona più importante intervistata dal Giornale d’Italia è la Regina Natalia, il 5 Maggio 1902: nel colloquio con il giornalista Giulio Marchetti Ferrante si parla della sua conversione al cattolicesimo, delle sue origini serbe e del suo rapporto con l’Italia.

Una citazione particolare la meritano anche la già citata conversazione con Guglielmo Marconi, e un affascinante incontro con il brigante Musolino. Il 7 Gennaio 1902 il bandito veniva tradotto da Catanzaro al carcere di Lucca, e viene avvicinato da un temerario cronista.

In queste righe il giornalista da del tu all’interlocutore, e non esita a fargli domande sui suoi misfatti: il risultato è un dialogo molto interessante, a tratti perfino  ironico.

Musolino voleva i suoi abiti da borghese. Ma non stai bene con quelli?

Sono abiti da galeotto e io non sono un delinquente

E’ vero che sei stato da una tua sorella ad un matrimonio…

Si è vero

Ma come hai potuto?

Mi sono vestito da donna. Due volte mi sono tagliati i baffi, e la mia faccia si presta a travisarmi: io anzi quando ero più piccolo avevo le sembianze di una donna

…quando ammazzasti quel padre con il bambino, e quel povero carabiniere?

Quando ho ammazzato quel padre il bambino era lontano… Quanto al poliziotto, vi eravate tutti schierati contro di me, condannato innocente nel fiore degli anni, nel fiore della giovinezza…[24]

 

Dal primo al secondo dopoguerra

L’intervista si diffonde progressivamente a partire dall’esperienza di Bergamini, anche se le guerre e l’esperienza del fascismo ne rallentano l’evoluzione.

Negli anni del primo conflitto Mondiale (1915-1918) la stampa italiana è vittima della censura e della autocensura: una campagna di informazione volta a nascondere informazioni militari e le dimensioni delle sconfitte sul campo di battaglia limita molto la libertà dei giornalisti. Nel ventennio fascista, ogni mezzo di comunicazione è poi ridotto a strumento di propaganda del regime di Mussolini. Anche l’invenzione della radio, diffusa a partire dagli anni ‘30, che pure avrebbe potuto aprire la strada ad un nuovo genere di interviste, è imbrigliata dalle logiche di potere e dai dettami del Duce attraverso il Minculpop (Ministero della Cultura Popolare). Un’intervista via radio permette di sentire la viva voce dell’interlocutore: già dal tono di voce, dall’inflessione e dalle pause si può capire più in profondità il personaggio rispetto alle frasi riportate dal giornalista sulla carta.

Dopo la tragica disfatta della seconda Guerra Mondiale, la stampa si reinventa e si rinnova nella forma e nei contenuti.

La nascita dei settimanali italiani risponde proprio  all’idea di un giornalismo fondato sull’attualità resa ancor più presente dall’immediatezza fotografica. Ne sono un fulgido esempio testate come Omnibus, Oggi, Panorama, L’Espresso, la Domenica del Corriere, Il Mondo, Epoca: pur con uno stile e un piglio diverso rappresentano il nuovo giornalismo popolare. L’Europeo, fondato da Arrigo Benedetti nel 1945, si differenzia per aver introdotto nel giornalismo il concetto che “ogni avvenimento possiede una natura di cronaca”. È una rivoluzione, perché con l’Europeo di Benedetti diventarono personaggi da raccontare dal vivo anche gli uomini politici, gli scrittori, gli uomini d’affari. Sarà proprio questo settimanale a reintrodurre e rivoluzionare l’uso dell’intervista nei settimanali italiani, con la brillante direzione di Tommaso Giglio qualche anno più tardi (1969-1976).

 

Una svolta storica:  l’intervista al Papa

Per molti anni quello dell’intervista è stato un genere snobbato e sottovalutato. La svolta avvenne Domenica 3 Ottobre 1965.

Quel giorno la prima pagina del Corriere della Sera è interamente occupata da un colloquio con il personaggio più importante mai avvicinato da un cronista italiano: Papa Paolo VI.

Il privilegio e la fortuna di questo incontro toccano ad Alberto Cavallari, storico inviato del Corriere del quale divenne anche direttore negli anni ottanta (dal 1981 al 1984). Cavallari avvicina il Santo padre alla vigilia della sua  partenza per New York, mentre proseguiva a Roma il Concilio Vaticano II. E’ un evento tale da occupare l’intera prima pagina e da meritare un titolo di nove colonne a caratteri cubitali: “Colloquio con Papa Paolo VI”. 

All’interno dell’ampia intervista leggiamo che si è trattato di “un colloquio che nasce dall’occasione semplice e non dall’ufficialità”. In realtà, nonostante le sottigliezze terminologiche e  l’umiltà dell’autore, possiamo parlare di un intervista a tutti gli effetti: scritta in forma indiretta, quindi non tramite una serie di domande e risposte graficamente riconoscibili. Ma è pur sempre un’intervista al Papa, sui temi più caldi del pontificato e della Chiesa.

 

“Papa Paolo VI mi ha parlato del Vaticano d’oggi, della Chiesa, del Concilio, del suo Viaggio a Nuova York alle Nazioni Unite, dell’Italia, dei rapporti Chiesa-Stato. Mi ha ricevuto nella sua biblioteca privata, di sera, conversando poi lentamente e con grande franchezza. I papi non concedono, com’è noto,  interviste: non ne concedono da duemila anni; ma un colloquio com’è stato questo so di poterlo riferire”.[25]

 

Questo l’inizio del lungo articolo che ripercorre le risposte  le opinioni del Pontefice. Lo stesso Cavallari (il quale ha la fortuna di un faccia a faccia “senza segretari”) precisa la forma che vuole dare all’articolo:  “Voglio solo tenere un diario, scritto proprio col tono di un diario, immediato, semplice, incurante di architetture, e non d’un’inchiesta”[26]. E’una tipologia di scrittura dovuta probabilmente alla complessità delle risposte e dei temi trattati, che sarebbe stato difficile e fatalmente impreciso rielaborare in forma diretta. L’autore preferisce lasciare tutto lo spazio necessario ai concetti espressi dal Pontefice e  alle sue opinioni.

Correttamente, Cavallari sottolinea anche che il confronto è durato “quasi un’ora, e lo riferisco con le stesse cadenze del parlato”[27]. Precisa inoltre che ciò che leggiamo è la ricostruzione delle parole di Papa Montini fissata nella sua memoria parola per parola: il giornalista ascolta infatti “senza scrivere (non si può scrivere davanti al Papa)”.[28]

Graficamente, le parole di Paolo VI sono riportate in corsivo, e vengono intervallate dalle considerazioni dell’intervistatore.

Ecco due esempi della forma indiretta dell’intervista a cui accennavamo prima:

Paolo VI ha raccolto l’inizio di una domanda sull’Italia e l’ha portata avanti senza retoriche e frasi di circostanza, fino al terreno spinoso dei rapporti chiesa-stato. “Spesso ci chiedono una parola sull’Italia, ma è così difficile dirla. Se la diciamo, osservano che il Papa interviene nelle questioni italiane…”

(…)

Sul viaggio  all’Onu, Paolo VI mi ha detto: “Ci hanno chiesto di andare per celebrare il ventesimo anno dell’Onu…”.[29]

 

L’intervista  ebbe una vasta eco sui giornali nazionali e internazionali nei giorni seguenti. Il giorno successivo, nella prima pagina del Corriere del 4 Ottobre, leggiamo:

“Oggi i giornali, le stazioni radiotelevisive, le agenzie, registrano nelle loro headlines il colloquio accordato dal Pontefice all’inviato del Corriere della Sera Alberto Cavallari. Sottolineano fra l’altro come Paolo VI abbia obbedito a un impulso di sincerità parlando della fatica e delle difficoltà che lo attendono in questo viaggio. Ma nonostante la sua riluttanza, si legge nei commenti, il Papa si rende conto dell’importanza storica di questo passo nel processo di rinnovamento della Chiesa”[30].

 

Da queste righe si capisce ulteriormente l’importanza di questa intervista, e lo scalpore che suscitò. Diciamo subito che un colloquio a tu per tu di questo genere come quello fra Cavallari e Montini, con l’intera prima pagina di un quotidiano occupata dall’intervista, rimane un fatto isolato.

Nel 1994 anche Vittorio Messori[31] ebbe la fortuna di intervistare il Santo Padre, Karol Woityla, seppure per iscritto e non mediante un incontro personale. Il risultato è stato uno dei più grandi successi editoriali di tutti i tempi, Varcare la soglia della speranza, edito da Mondadori. La storia di questa intervista è intricata e complessa, come del resto doveva esserlo avvicinare una personalità come il Santo Padre.

Inizialmente, la RAI aveva ottenuto l’assenso del Papa per la concessione di una intervista televisiva in occasione del quindicesimo anniversario del pontificato che ricorreva nel 1993. A Vittorio Messori fu affidato il compito di intervistare il Papa, a Pupi Avati la regia  dello storico evento trasmesso dalla Tv pubblica. Messori incontrò anche il Papa a Castel Gandolfo e gli consegnò un primo schema contenente venti domande. Purtroppo il carico di lavoro del Papa e  la sua agenda fitta di appuntamenti non gli permisero di mantenere la promessa di quella intervista. Qualche tempo dopo, però, a Messori giunse una sorprendente telefonata:

In linea, il direttore della sala Stampa della santa Sede Joachìn Navarro-Valls che era stato tra i più convinti sostenitori dell’opportunità dell’intervista. Navarro era latore di un messaggio che (mi assicurava) aveva colto di sorpresa lui per primo. Il Papa, cioè, mi mandava a dire: “Anche se non c’è stato modo di risponderle di persona, ho tenuto sul tavolo le sue domande. Mi hanno interessato, credo che occorra non lasciarle cadere. Così ci ho riflettuto e, da qualche tempo, nei pochi momenti che i miei impegni mi concedono, mi sono messo a rispondere per iscritto. Lei mi ha posto dei quesiti, dunque ha in qualche modo diritto ad avere delle risposte… Ci sto lavorando. Gliele farò avere. Poi, faccia come crede più opportuno”.[32]

 

Da questo episodio nasce questo libro-intervista che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Messori ha aggiunto alle prime domande altri quindici quesiti là dove il testo lo richiedeva, e si è limitato ad alcuni ritocchi di editing. Per il resto il libro riporta esattamente tutte le considerazioni di Woityla.

Lo stesso autore ribadisce nell’introduzione al libro: “La voce che qui risuona è tutta e solo del Successore di Pietro. Così che sembra opportuno  parlare non tanto di un’intervista, quanto di un libro scritto dal Papa, seppure stimolato da una serie di domande”.[33]

Un merito riconosciuto unanimemente a Giovanni Paolo II è quello di aver saputo sfruttare  i mezzi di comunicazione di massa. La sua abilità comunicativa, la sua gestualità diretta e anticonvenzionale, il rapporto profondo con la folla dei fedeli, il ripetersi dei suoi viaggi hanno trasformato il suo pontificato  in un susseguirsi di veri e propri eventi mediatici. A questo contribuì anche la sua disponibilità nei confronti dei giornalisti. Ai quali, durante i viaggi aerei del Santo Padre, veniva  concessa da Woityla l’opportunità di porgli delle domande. Le potremmo definire “brevi interviste di gruppo”, dove il Papa permetteva ai giornali di dare rilevanza al suo viaggio sfruttando le dichiarazioni gentilmente offerte.

Il nuovo Papa Benedetto XVI, durante il suo primo viaggio (a Colonia, per la Giornata Mondiale della Gioventù, dal 16 al 21 Agosto 2005) ha abolito questo momento di incontro con i giornalisti. Però pochi giorni prima della manifestazione di Colonia ha scelto Radio Vaticana per la sua prima intervista da Pontefice a quattro mesi dalla sua elezione. Segno questo, che anche una personalità più introversa e intellettuale, meno avvezza al media-system del suo predecessore, tiene comunque in considerazione il rapporto con i giornalisti. Potersi sentire a suo agio ed essere al riparo da possibili tranelli: questi i motivi dell’intervista concessa proprio alla stazione radiofonica del Vaticano, con domande aperte su temi generali come i giovani o l’ecumenismo, e un ampio spazio per risposte complete. La scena qui viene lasciata interamente al Pontefice, mentre l’intervistatore decide solo la direzione e gli ambiti delle riflessioni. Inoltre non ribatte mai alle risposte di Benedetto XVI.

Ecco un breve passo di questo colloquio, riportato nei giorni seguenti da tutti i giornali italiani:

Santità, Lei ha detto, e questa Sua affermazione è stata ripresa: “La Chiesa è giovane”. In che senso?

Intanto, in senso strettamente biologico, perché ad essa appartengono molti giovani; ma essa è anche giovane perché la sua fede sgorga dalla sorgente di Dio, quindi proprio dalla fonte dalla quale viene tutto ciò che è nuovo e rinnovatore. Non si tratta quindi di una minestra rifatta, scaldata e riscaldata, che ci viene riproposta da duemila anni. Perché Dio stesso è l’origine della giovinezza e della vita. E se la fede è un dono che viene da Dio – è l’acqua fresca che sempre ci viene donata – quella che poi ci consente di vivere e che poi noi possiamo immettere come forza vivificatrice nelle strade del mondo.

Quale posto riveste l’ecumenismo a Colonia?

Il dialogo ecumenico come tale non è all’ordine del giorno a Colonia, perché Colonia è sostanzialmente un incontro tra giovani cattolici di tutto il mondo e anche con quei giovani che non sono cattolici ma che vogliono sapere se da noi possono trovare una risposta alle loro domande. (…)

Santità, purtroppo proprio nei Paesi ricchi del Nord, si manifesta un allontanamento dalla chiesa e dalla fede in generale, ma soprattutto da parte dei giovani. Come ci si può opporre a questa tendenza?

Ovviamente, stiamo tutti cercando di presentare il vangelo ai giovani in maniera che essi comprendano: “Ecco il messaggio che stavamo aspettando!”. È vero anche che nella nostra società occidentale moderna ci sono molte zavorre che ci allontanano dal cristianesimo: la fede appare molto lontana, anche Dio appare molto lontano, la vita invece appare piena di possibilità e di compiti, tendenzialmente il desiderio dei giovani è di vivere la propria vita al massimo delle sue possibilità. (…) Credo però che tra i giovani si stia anche diffondendo la sensazione che tutti questi divertimenti offerti non possono essere “il tutto”. Da qualche parte ci deve essere il “di più”. Occorre riconoscere questa richiesta e non ignorarla, non scansare il cristianesimo come qualcosa di ormai concluso e sperimentato, e contribuire affinché esso possa essere riconosciuto come una possibilità sempre fresca perché originata da Dio[34].

 

L’Europeo di Tommaso Giglio

Negli anni ’50, più precisamente il 3 Gennaio del 1954, un nuovo attore compare sulla scena dei media italiani: la televisione. La forza dell’immagine cambia il panorama dell’informazione: i telegiornali, le inchieste come Viaggio in Italia (del regista e scrittore Mario Soldati) e le tribune politiche danno spazio al genere dell’intervista televisiva. Con i suoi grandi pregi come l’immediatezza, la comunicazione non verbale e l’assenza del taglia e cuci giornalistico, la diretta inchioda l’interlocutore e lo costringe ad affrontare anche domande scomode. Ben presto emerge però anche il suo grande difetto: il tempo limitato a disposizione non permette un livello di approfondimento paragonabile alle interviste scritte.

Con l’avvento della televisione sul mercato italiano, il mondo della carta stampata perde il monopolio dell’informazione che durava da più di un secolo. Prima cominciano a patirne i quotidiani, poi tocca ai periodici soffrire l’invadenza del piccolo schermo. Il rapporto tra Tv e telespettatore diventa strettissimo, e sul finire degli anni Sessanta le vendite dei settimanali e dei quotidiani continuano a scendere.

A cavallo tra gli anni ‘60 e i ‘70, proprio la tecnica dell’intervista fu uno degli antidoti scelti dall’Europeo per arginare la crisi. La figura di Tommaso Giglio  è determinante nella rinascita del settimanale fondato da Arrigo Benedetti nel ’45.

L’editore Angelo Rizzoli gli affida la direzione nel 1969. Giglio, nato a Pontecorvo nel 1923, sfrutta al massimo il piglio aggressivo e polemico dei suoi reporter e introduce in ogni numero del giornale una o più interviste, come faceva in America il settimanale Usa Today.

L’intuizione di adottare largamente il genere dell’intervista servì per differenziarsi dai concorrenti Panorama e  L’Espresso, i quali dominavano il  mercato dei settimanali seguendo la linea del newsmagazine sul modello dei settimanali statunitensi Life e Newsweek. I due leader italiani perseguivano la strada dell’impersonalità, e seguirli su quel terreno avrebbe significato per l’europeo una sicura disfatta sul piano delle vendite.

Enzo Magrì, descrive in un articolo apparso sulla rivista Tabloid nel 2004  il segreto di quelle scelte:

“Per surrogare l’immediatezza del mezzo televisivo, Giglio riduce al minimo le articolesse (i pezzi in terza persona che ubbidiscono al principio del “ora te lo racconto io”) e dà più spazio alle interviste. Il botta e risposta del quale l’Europeo fa ragguardevole uso, ha lo scopo di annodare, attraverso lo strumento cartaceo, un filo diretto tra il protagonista della vicenda e il lettore. Compito del giornalista, che propone domande provocatorie e raccoglie le risposte nel registratore, è quello di interpretare la curiosità di chi legge e d’assumere il ruolo dell’antagonista rifuggendo da atteggiamenti compiacenti, da compare dell’intervistato, com’era di moda all’epoca”.[35]

 

Sfogliando l’Europeo di quegli anni si leggono colloqui con protagonisti di fatti di cronaca, politici, cantanti, attori. Tutti accomunati dal taglio voluto da Giglio: immediatezza, vivacità, senza annoiare il lettore ma fornendogli ogni settimana degli incontri interessanti, originali, ed esclusivi.

Magrì racconta così la direttive di Giglio: “Lo schema classico delle interviste dell’Europeo prevedeva un lead con tre domande in sequenza, brevi, seguite da tre risposte brevi ed esaurienti della stessa lunghezza: due righe, al massimo tre. In questo modo il lead prendeva per la manica il lettore e lo trascinava dietro senza dargli motivo di distrarsi. Seguiva quindi la presentazione del personaggio e i motivi per i quali era intervistato. Quindi si cercava un aggancio qualsiasi per tornare al botta e risposta”.

Ad esempio ecco le prime tre domande di Enzo Magrì a Guido Calvi, avvocato difensore di Pietro Valpreda, accusato per la strage di Piazza Fontana:

Avvocato Calvi, chi è, psicologicamente, Pietro Valpreda?

Non è certamente un mostro. E’un uomo.

Si, certamente, un uomo. Ma che tipo d’uomo?

È il tipo d’uomo che sembra fabbricato apposta perché, nei momenti necessari, gli si possa attribuire una strage.

Non capisco, avvocato Calvi.

Valpreda corrispondeva perfettamente al tipo che nel 1969 qualcuno andava cercando per farne il capro espiatorio di un fatto mostruoso. Di una strage, appunto.[36]

 

Per evitare l’uso  di tecnicismi eccessivi e di un linguaggio lontano dal lettore comune, che avrebbe fatto perdere di interesse il colloquio, Tommaso Giglio spesso non rispettava le competenze nell’assegnare le interviste. 

“Mandava a fare la nautica uno che di nautica non sapeva nulla. Il giornalista così si doveva documentare, e poteva interpretare anche il desiderio del lettore che di nautica non era esperto”- spiega Magrì - “Quindi cercherà di ricavare risposte chiare e  semplici indagando la personalità di chi aveva di fronte”[37].

Nella agguerrita pattuglia di cronisti che nei primi anni 70 lavorarono all’Europeo di Giglio spicca una donna, Oriana Fallaci. Un inviata dal talento giornalistico fuori dal comune che affascina i lettori con uno stile aggressivo. Le sue corrispondenze dal Vietnam  e dagli altri inferni di guerra hanno fatto la storia del giornalismo, come d’altronde le sue interviste per il settimanale di Giglio.  I suoi colloqui con i potenti della terra, infatti, sono stati raccolti dall’autrice nel volume Intervista con la Storia, edito da Rizzoli nel 1974.  Si tratta di 18 interviste con i personaggi più influenti del tempo, dal segretario di stato americano Henry Kissinger a Yasser Arafat; dal primo ministro israelita Golda Meir allo scià di Persia Reza Pahlavi.

Attraverso queste interviste, che grazie al  tono perentorio e il temperamento polemico della Fallaci diventano talvolta veri e propri scontri, il giornalista si fa testimone e storico del presente. Raccoglie materiali e testimonianze che servono a interpretare le responsabilità di chi esercita il potere. Nella introduzione al suo libro, l’autrice racconta così il suo stato d’animo di fronte a questi colloqui:

“Su ogni esperienza professionale lascio brandelli d’anima, a quel che ascolto e vedo partecipo come se la cosa mi riguardasse personalmente (…) Mi recai oppressa da mille rabbie, mille interrogativi che prima di investire loro investivano me stessa e con la speranza di comprendere in che modo, stando al potere o avversandolo, essi determinavano il nostro destino”[38].

 

Dal punto di vista della tecnica giornalistica, le interviste della Fallaci si differenziavano da quelle degli altri suoi colleghi cronisti: lei si collocava infatti tra il lettore e il personaggio, diventando spesso il protagonista dei colloqui. Non un mediatore ma un personaggio che attira le luci della ribalta. A dimostrazione che non era solo la Tv a dare notorietà ai giornalisti.

Le scelte di Giglio, le interviste settimanali e i colloqui della Fallaci determinarono picchi  di vendita molto alti: nei primi anni ‘70 l’Europeo vendeva stabilmente tra le centottantamile e le duecentomila copie. Un successo determinante per  l’evoluzione del genere giornalistico dell’intervista. Da qualche anno, l’Europeo è tornato nelle edicole riproponendo un’antologia dei pezzi storici della vecchia rivista: il secondo numero uscito nel Marzo  del 2004, intitolato “L’Italia degli anni settanta” contiene molti articoli dell’era-Giglio. Anche a trent’anni di distanza ha avuto degli ottimi risultati di vendita.

 

La moltiplicazione delle forme e delle tipologie

Negli anni ‘80 la moltiplicazione dell’offerta televisiva ha definitivamente consacrato il piccolo schermo come  principale fonte di informazione degli italiani. L’intervista televisiva ha potuto mostrare la sua faccia migliore nei programmi di inchiesta come quelli di Sergio Zavoli.[39] Tv7 e la Notte della Repubblica (1989) sono forse gli esempi migliori di come condurre un confronto televisivo in profondità, senza limitarsi ad un contatto superficiale.  Qui l’intervista è componente essenziale dell’impianto narrativo di una ricostruzione il più vicina possibile alla verità.

Anche i primi colloqui serali del conduttore televisivo Maurizio Costanzo si possono inserire nel genere delle intervista televisiva. Prima alla Rai con Bontà Loro (1976) e Acquario (1977), poi alla tv privata Fininvest con il Maurizio Costanzo Show (1982), Costanzo invita ogni sera un personaggio del mondo politico, culturale o dello spettacolo, per conversare a ruota libera in un faccia a faccia che costituiva l’ossatura del programma. La strada intrapresa poi da  Costanzo è quella del Talk-show intorno ad un tema di attualità: il numero degli ospiti cresce e al conduttore resta il ruolo di moderatore e regolatore dei turni di battuta. Le opinioni degli ospiti spesso si sovrappongono e sono poste tutte sullo stesso piano: tutt’altra cosa rispetto alla profondità di un’intervista personale.

Anche nei telegiornali l’intervista ha progressivamente continuato a diffondersi: ogni giorno vengono interpellati politici, protagonisti di fatti di cronaca, attori, calciatori. Tutti questi interventi sono limitati però dal fattore tempo: in un’edizione di mezz’ora non ci stanno più di dieci o quindici servizi. Per forza di cose le interviste non durano mai più di uno o due minuti: il più delle volte ci si limita solo a poche battute di corsa, come quelle dei politici accerchiati da una folla di cronisti all’uscita di un’aula parlamentare.

 

 Il panorama odierno: trasformazioni e degenerazioni

Per descrivere il panorama attuale riportiamo le considerazioni di Giovanni Santambrogio, giornalista del Sole-24Ore e docente di Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico all’Università Cattolica di Milano:

Affermandosi come genere, negli anni ’90, l’intervista ha subito trasformazioni profonde nella tecnica comunicativa. Ha perso gran parte della freschezza e della pacatezza che aveva un tempo per trasformarsi ora in un testo concordato, ora in un confronto serrato tra giornalista e interlocutore. Se il testo manca di aggressività non viene pubblicato o viene percepito come una “pastetta”. Si è imposto un modello che propone il giornalista come giudice e l’intervistato come un imputato che deve scagionarsi. Le domande si trasformano in pericolosi trabocchetti. Il testo finale, quello che viene stampato, diventa il risultato di una selezione di frasi abilmente montate senza seguire l’ordine dell’incontro. La maggior parte delle interviste che oggi si leggono non rispondono più alle preoccupazioni e al metodo di lavoro vissuti dalla Fallaci.

Lietta Tornabuoni commenta così il cambiamento: “La natura non spontanea e non esclusivamente informativa, non dialettica, ma coatta, concordata e patteggiata che l’intervista ha assunto nel giornalismo italiano non riguarda soltanto personaggi della politica, ma anche scrittori, registi, attori. In campo non politico, l’intervista diventa spesso una forma di pubblicità non pagata. Così un genere interessante ha perduto oggi parte della sua credibilità. Le eccezioni non mancano, e soprattutto nelle pagine culturali o di inchiesta, s’incontrano ancora esempi di buone e godibili interviste”.[40]

 

Anche Furio Colombo non dà un quadro positivo del genere attuale dell’intervista:

“I leader politici italiani di solito discutono una rosa di nomi prima di accettare il rischio di una intervista. E di solito ottengono esattamente ciò che anche il giornalista aveva predisposto e atteso: lo scatto favorevole delle condizioni di affinità”.[41]

 

CAPITOLO 2

 

TIPOLOGIE E CLASSIFICAZIONI DELL’INTERVISTA

 

2.1 Perché si leggono, si chiedono e si rilasciano le interviste

 

In una pagina di giornale, i titoli colpiscono per primo l’occhio del lettore. Subito dopo, l’attenzione si sofferma sugli occhielli, i sommari e i catenacci. Poi, istintivamente, si passa all’eventuale intervista. Quella alternanza di caratteri differenti, facilmente identificabili all’interno di un quotidiano, cattura sempre.  Quando ci si trova di fronte ad un’intervista, anche se sgradita o noiosa, prima di voltare pagina  passa sempre un attimo in più rispetto ad un qualunque articolo di cronaca. Perché la composizione grafica della conversazione facilita la lettura: il lettore capisce subito quali sono le domande (in grassetto o corsivo) e quali le risposte.

Le interviste si fanno anche perché vengono sempre lette. Magari solo per qualche riga o per una sola domanda, però risulta difficile saltarle completamente: per il modo in cui sono impaginate incuriosiscono.

Inoltre, un’intervista si può leggere dall’inizio, dalla fine, dal centro: si può piluccare a piccoli pezzi, senza avere l’obbligo di scorrerla nella sua interezza per comprenderla. Ad esempio, ci può interessare la risposta di un attore sulla sua vita privata, senza per questo dover leggere per forza il suo pensiero sul suo ultimo film. Si può leggere saltando da un quesito all’altro, soprassedendo le parti più noiose e facendo attenzione a quelle che più ci interessano. Ogni domanda è legata alla risposta precedente ma costituisce anche un tassello a sè stante; l’introduzione può facilitare una comprensione maggiore ma non è mai determinante. Se voglio capire un commento o un pezzo di cronaca devo leggerlo tutto, perché c’è un inizio, una parte centrale e una conclusione; l’intervista invece per come è strutturata suggerisce una lettura più rilassata.

Più precisamente, l’intervista “esercita un fascino particolare agli occhi del lettore perché lo mette a tu per tu con persone che, nella maggioranza dei casi, molto difficilmente avrebbe la possibilità di conoscere”[42]. Personaggi di prestigio, vip, uomini potenti, individui di successo, protagonisti o testimoni di un fatto di cronaca: tutti questi uomini solleticano la curiosità dei lettori che, attraverso la mediazione del giornalista, entrano in contatto con loro o quantomeno si informano sulle loro opinioni.    

La giornalista Lietta Tornabuoni ha sintetizzato così il motivo per cui è nata e si è diffusa questa tecnica:

“Si pongono domande a chi sa qualcosa più degli altri, a chi pensa qualcosa di nuovo e di diverso, a chi è stato testimone di eventi cui gli altri non erano presenti: attraverso le risposte, anche la comunità dei lettori viene così informata. Si pongono domande a chi possiede una competenza, un sapere scientifico, tecnico o storico, ma non possiede il linguaggio della comunicazione: attraverso le risposte, e la mediazione del giornalista che le traduce in linguaggio comune, le conoscenza dell’intervistato diventano accessibili al pubblico, si pongono domande a chi prende le decisioni influenti sulla vita collettiva: attraverso le risposte, la gente viene informata di quali siano le tendenze, i programmi, le prospettive del futuro anche proprio. Si pongono domande agli autori di un’opera d’arte: attraverso le risposte, il pubblico viene a conoscere quali fossero le intenzioni, le ispirazioni, le motivazioni dell’autore, ed è magari aiutato a capirne meglio il romanzo, il film, il quadro, la canzone o la sinfonia, la messinscena teatrale. Si pongono domande a chi ha vissuto un’esperienza non comune; attraverso le risposte, una parte di quell’esperienza diventa collettiva”.[43]

A differenza di qualsiasi altro pezzo, un’intervista si legge sempre perché – come ha scritto Stefano Lorenzetto – “si ha la sensazione che il racconto del protagonista sovrasterà l’opinione dell’autore”[44]. È il momento in cui il pubblico entra a contatto direttamente con la fonte dell’informazione e, si presuppone, con la verità dei fatti.

Le scelte dei giornalisti devono tenere presente questa vicinanza tra il lettore e il personaggio: il ruolo di mediatore è assai delicato. Enzo Magrì ricorda che all’Europeo, negli anni ’70, una delle norme per gli intervistatori era: “Far dire all’intervistato quello che avrebbe detto se fosse stato capace di dirlo. Questo significa che bisognava indurre l’intervistato ad esprimere tutto il suo pensiero e se non ce la faceva era necessario aiutarlo nel senso di scavare con domande acconce nella sua intelligenza per ricavarne tutto il suo pensiero”[45].

Quando si intervista una persona, il giornalista deve sforzarsi di rendere chiare le sue parole comprensibili per il lettore, anche a costo di scavare più in profondità o di chiedere all’interlocutore di ripetere il suo pensiero più volte.

Questo intervento tecnico del giornalista, ancorché inevitabile, è a fondamento del dibattito sull’essenza di questa mediazione: è proprio vero che l’intervista è il momento della verità, che ci presenta un personaggio così com’è? Purtroppo, o per fortuna, no. Proprio perché l’interlocutore è sottoposto alla mediazione più o meno deformante del giornalista.

In televisione il ruolo del giornalista è meno evidente, mentre la rielaborazione a posteriori nell’intervista scritta è fondamentale. Quest’ultima è anche uno strumento ambiguo e contraddittorio: non bisogna dimenticare che ogni parola dell’intervista scritta è il prodotto di una tecnica attraverso la quale una conversazione è stata trasformata in un articolo. In questi casi il giornalista dovrebbe eclissarsi, per lasciar posto al pensiero dell’interlocutore; in realtà è lui non solo a fare le domande ma anche a selezionare le risposte. Dovrebbe essere un mediatore, ma diventa necessariamente un protagonista: deve restringere le domande e le risposte entro uno spazio, tagliare i tempi morti, dare al dialogo una logica, se necessario modificare l’ordine delle domande.

In Tv il fattore tempo limita la possibilità che si realizzi il proposito di un “intervista come momento della verità”: in video proliferano le interviste brevi, prive di obiezioni, dove il personaggio politico intervistato impara a dire rapidamente e senza contraddittorio quello che vuole, puntando sulla frase a effetto o sul paradosso.

Per queste ragioni, può capitare che lo scopo di un’intervista sia quello di farsi pubblicità o di rilasciare dichiarazioni senza contraddittorio (o quasi). L’illustre semiologo Umberto Eco le ha definite interviste-manifesto:

“Quando un uomo politico, un grande dell’economia o l’autore di un libro, rilasciano una lunga intervista al direttore o al più illustre collaboratore di un giornale, è chiaro che l’intervistato non è stato colto di sorpresa, e di solito ha sollecitato l’incontro proprio perché voleva far sapere alcune cose che non poteva dire altrimenti”.[46]

 

È come se Eco dicesse: attenzione, non sempre il motivo per cui esce in edicola un’intervista è il diritto all’informazione dei lettori.

Tornando alla tecnica giornalistica, un’intervista può avere diversi scopi, sempre connessi con la sensibilità del giornalista. Quali e quanti sono?

Il giornalista Claudio sabelli Fioretti, collaboratore del Corriere Magazine per cui ha realizzato più di duecentocinquanta interviste, risponde così:

“Un’intervista può avere mille scopi. Ma uno dei principali è riuscire a far dire all’intervistato cose coerenti, reali, divertenti. Bisogna spesso aiutarlo. Io arrivo anche a indirizzarlo, a suggerire risposte. È una forma di maieutica. Gli italiani non sanno esprimersi, non studiano oratoria a scuola, si esprimono in maniera contorta e oscura. Alla fine qualcuno mi dice anche ‘Non credevo che potessi essere anche così chiaro’. Tremendi sono certi politici e molti professionisti”[47].

Gianni Minoli ne individua un altro, parlando di Stefano Lorenzetto, da lui considerato un modello di intervistatore: “Sono molto rare sono le interviste-incontro, quelle in cui al giornalista spetta il compito, se possibile più arduo, di raccontare, attraverso l’esperienza del singolo, l’eccezionalità della quotidianità: insomma quanto di tragico, paradossale, eroico c’è nell’essere uomini del proprio tempo”[48].

L’intervista deve intrattenere, ma anche raccontare delle storie. Deve scavare nell’interiorità del personaggio, oppure raccogliere le sue opinioni sugli ultimi eventi. Perché si fanno le interviste? Non c’è un’unica risposta: gli obiettivi e gli stili delle testate sono molteplici, le tecniche giornalistiche complesse, le scelte degli intervistatori decisive.

Tutti fattori che proveremo a decifrare e analizzare, tenendo presente anche un’interpretazione di Sergio Lepri. Più maliziosa, forse, ma ugualmente valida:

“C’è da domandarsi quali possano essere le ragioni di un’intervista: per rendere più vivace e leggibile il servizio? Per mostrare al lettore la facilità con cui il giornalista può parlare con i potenti? Una ragione, in certi casi, potrebbe essere che l’intervista deresponsabilizza il giornalista intervistatore: lui fa le domande, l’intervistato risponde, e le sue risposte (specie se riprese con il registratore), non hanno bisogno di mediazione, cioè di riassunto e interpretazione, due operazioni che possono essere pericolose”.[49]

 

2.2 Le tipologie di intervista scritta: una classificazione

 

L’intervista diretta

Sui giornali la forma di intervista più gettonata è quella diretta, dove le domande e le risposte si susseguono in una successione evidenziata dalla diversità dei caratteri grafici. Al termine del colloquio personale, il giornalista rielabora le dichiarazioni registrate o scritte alternando una domanda e una risposta. In molti casi c’è una introduzione sul personaggio e l’occasione dell’incontro, poi comincia la serie di domande. I quesiti del giornalista sono stampati in un carattere più marcato (grassetto, oppure corsivo), mentre le parole attribuite all’intervistato sono scritte in carattere normale e vengono poste tra virgolette. Questa divisione permette di individuare subito, a colpo d’occhio, quali sono le domande e quali le risposte; inoltre individua subito la lunghezza dei relativi interventi.

La tecnica dell’intervista diretta accentua l’immediatezza dell’articolo. È la forma più chiara perché non c’è mai confusione tra il ruolo di intervistatore e quello di intervistato.

Non si ha difficoltà a trovare sui giornali esempi di interviste dirette: ecco uno stralcio di un’intervista al direttore generale della Rai Flavio Cattaneo, rilasciata al giornalista Roberto Bagnoli per il Corriere della Sera. Questo articolo è apparso il giorno seguente la perdita per la Rai di parte dei diritti televisivi per il prossimo Mondiale di calcio:

Non teme una reazione del pubblico che si ribella al pagamento del canone? Dell’appassionato che vuol vedere anche il Ghana?

Ma quanti sono? Per poche persone dovremmo chiedere di aumentare il canone? La rai ha 11mila dipendenti, con relative famiglie, a cui pagare lo stipendio ogni mese e ha 16 milioni tutti da rispettare. La verità è che non si è mai contenti. Quando il paese è in deficit bisogna risparmiare, ma quando si risparmia nessuno lo accetta. Si devono far crescere le aziende senza buttare via i soldi. Detto questo la Rai, lo ripeto fino alla nausea, avrà tutte le migliori partite del mondiale, highlights compresi. Un servizio che è costato più di 90 milioni di euro.

Il ministro Landolfi le ha scritto per avere chiarimenti. E si è risentito per le sue generiche accuse ai politici che non avrebbero capito. Cosa risponderà?

Non mi riferivo a lui ma a quei politici che hanno dichiarato che la rai ha perso i Mondiali. Al ministro che gentilmente mi ha scritto, gentilmente risponderò.

Resta il fatto che Sky ha fatto un buon colpo…

Non sono d’accordo… Sky ha semplicemente comprato delle rimanenze. Noi Abbiamo acquistato tutto quello che ci sarà di meglio. Avremo il diritto di scelta anche sulla base dell’andamento del Mondiale. Mi spiego meglio. Se il solito Ghana diventa la squadra rivelazione noi l’avremo lo stesso. In pratica siamo al riparo dalle esclusioni.

Lei ha detto che per avere tutto, la rai avrebbe dovuto chiedere di ritoccare il canone. Di quanto?

È molto semplice, ogni euro in più vale 15 milioni di euro di incasso. Quindi tre euro all’anno e per sempre, perché poi l’aumento è chiaro che la Rai se lo tiene per gli anni a venire.[50]

 

Più le riposte sono brevi, maggiore è il ritmo dell’articolo e maggiore il numero di risposte. In questo modo, risulta più evidente anche il sottile gioco psicologico tra intervistatore e intervistato. Riportiamo a titolo di esempio un brano dell’intervista di Roberto Gervaso a Mario Soldati, sul finire degli anni ’70. Le risposte stringate e le domande a raffica accentuano il ritmo e la brillantezza dell’intervista:

A chi, in Italia, daresti il Premio nobel?

A Giorgio Bassani.

Perché?

Innanzitutto, perché gli farebbe piacere.

Poi?

Perché se lo merita, visto anche a chi, in passato, l’assegnarono: Pearl Buck, ad esempio, o Quasimodo, buonanima.

Solo per questo?

No, anche perché, con le sue ideologie democratiche e pacifiste, è tipo da Nobel.

E a te non lo daresti?

No, per le stesse ragioni capovolte.

E se te lo imponessero?

L’accetterei. Così, finalmente, e magicamente, risolverei i miei problemi finanziari.

Ne hai molti?

Ho sempre avuto le mani bucate. Come mio padre, che fallì tre volte.[51]

 

L’intervista indiretta

Quando un giornalista inserisce il virgolettato dell’interlocutore senza domande dirette, siamo in presenza di una intervista indiretta. Questa tecnica è caratterizzata dall’assenza dei punti di domanda classici, tipici del “botta e risposta”, e lascia invece più spazio alle considerazioni del giornalista. La rielaborazione a posteriori è più incisiva, perché non si tratta di pianificare una serie di domande e di risposte, ma di integrare le parole dell’interlocutore con proprie riflessioni o dati utili alla comprensione del lettore.

Alberto Papuzzi spiega così la differenza tra intervista diretta e indiretta:

“La forma classica dell’intervista, nella sua stesura finale, è il dialogo diretto, con le domande dell’intervistatore e le risposte dell’intervistato riportate fra virgolette. Quando l’argomento dell’intervista lo richiede, perché è molto complesso o perché necessita di una contestualizzazione, si può passare ad una forma indiretta, in cui l’intervistato – soprattutto se non è una persona molto nota al pubblico dei lettori – non risponde a precise domande e contestazioni, ma interviene o colloquia, sempre fra virgolette, su questioni poste in modo generale, in un contesto di informazioni provenienti anche da altre fonti”.[52]

Sul Sole-24Ore del 1° Febbraio 2005 troviamo un’intervista dell’inviato Marco Magrini a Helsinki con il boscaiolo cinquantasettenne Hannu Hestela. L’articolo vuole descrivere il corpo  forestale finlandese. Magrini ha incontrato Hestela, e ha scelto per la scrittura dell’intervista la forma indiretta, più utile a spiegare l’ambiente del Paese baltico, a  enunciare più dati utili al lettore.

“Ieri ho abbattuto 125 betulle”, racconta mentre annota su un cartoncino le otto piante – tutte a fusto stretto ma alte fino a 25 metri – che in  dieci minuti ha tirato giù, segato e ammassato in una catasta che pare una zattera su un oceano di neve. “L’azienda Stora Enso me le paga un euro l’una” dice. Hannu Hestela ha passato oltre metà dei suoi 57 anni nei boschi circondato dalla solitudine, eppure non immagina davanti a sé nulla di diverso. Anzi,a chiedergli cosa ama delle foreste finlandesi, sembra di sentir parlare un poeta: “Il canto degli uccelli, il profumo degli alberi, le impronte di animale sulla neve e i colori dell’autunno”. In Finlandia ci sono circa 22mila Hannu Hestela. Ventiduemila lavoratori silvestri che fanno girare un’economia capace di fatturare 33 miliardi di euro in legname, carta e macchine forestali. E capace anche di contribuire al 24% delle esportazioni nazionali, distribuendo ricchezza all’intero paese (…) Una ricchezza di molti, ma anche una ricchezza di tutti: secondo la legge, chiunque è libero di passeggiare nei boschi e di raccogliere funghi e mirtilli e lamponi a volontà. “Questo bosco – spiega Hestela – è del signor Lehti, e io sono qui perché ha venduto alla Stora Enso un po’ dei suoi alberi”. Non si pensi a un disboscamento dissennato. In zone limitate, Hestela recide un albero su sei e la prossima estate si preoccuperà di piantarne di nuovi. “Il fatto straordinario – spiega Hannu Valtanen, vicepresidente della federazione delle aziende di settore – è che il bilancio forestale del Paese è positivo: ogni anno, vengono piantati molti più alberi di quelli che vengono tagliati”. “In media-  conferma Hestela – io recido 15mila alberi e ne pianto 25mila”.[53]

 

Magrini doveva raccontare i forestali di Finlandia e per trasmettere al lettore uno sguardo più ampio sulla situazione del paese, il giornalista ha usato l’intervista indiretta. L’uso frequente dei trattini permette più incisi al cronista; l’ampio spazio tra una domanda e l’altra concede la possibilità di spiegare i dati essenziali della situazione; l’assenza del vincolo del botta e risposta permette a Magrini di inserire anche una dichiarazione di una terza persona (il vicepresidente dell’azienda di settore), in modo da dare al lettore un quadro più preciso.

Anche le interviste-ritratto possono essere fatte con questa tecnica senza per questo risultare depotenziate o meno vive.

Il giornalista del Corriere della Sera Beppe Severgnini ha trasformato il suo incontro con la cantante Madonna in un’intervista indiretta uscita nel 1998.

Ci sono donne celebri che di fronte a un intervistatore amano apparire indifese, come Naomi Campbell; oppure caute, come Deborah Compagnoni; o amichevolmente battagliere, come Emma Thompson. Quasi tutte, più o meno inconsapevolmente, cercano complicità (esattamente come fanno gli uomini). Madonna no. Lei ascolta, sospesa, stende il bel collo, sorride e sibila risposte. Un cobra languido, addolorato per il destino della prossima vittima, ma non troppo.

Domando come sta la figlia, Maria Lourdes. Si addolcisce: “Oh, lei, benissimo. Troppa eccitazione, però, andando di qua e di là. Sono io che dormo poco”. Chiedo se viaggia senza la bambina. Si adombra: “Mai. Senza di lei non vado da nessuna parte”. Racconta, mostrando un finto orrore sorridente, che la piccola nei parchi continua a baciare bambini sconosciuti. Essere mamma – dicono  i bene informati – ha cambiato Madonna. (…)

Le chiedo se ci sono cose di cui si sia pentita. Sorride di nuovo: “Sono sempre stata onesta con me stesa”. Insisto: c’è qualcosa che vorrebbe non aver fatto? Smette di sorridere: “Si cambia, si cresce, si guarda indietro. Certo, bisogna imparare dai propri errori. Ma avere rimpianti è una perdita di tempo”. Domando cosa ha intenzione di fare adesso. “Non lo so. Non riesco a immaginarmi da un ano all’altro. Vivo il momento. Contrariamente a quello che crede la gente. Io prendo le decisioni in base all’istinto. Ascolto tutti – anche un perfetto sconosciuto può influenzarmi – ma poi decido io. Molti confondono questo modo di agire con il fatto che io sia una calcolatrice”.[54]

 

In questo tipo di intervista il punto interrogativo è sostituito con domande implicite (“Domando come sta la figlia”, oppure “Le chiedo se ci sono cose di cui si sia pentita”). Severgnini ha optato per l’intervista indiretta anche per la reticenza della cantante americana: questo gli ha permesso di dare ritmo all’articolo che, se elaborato in forma di botta e risposta, avrebbe avuto poco pepe, viste le risposte a monosillabi di Madonna. Così, aggiungendo le sue personali e acute osservazioni sulla cantante, sui suoi gesti e le sue smorfie, l’autore è riuscito a realizzare un’intervista scorrevole e interessante, anche se il contenuto delle dichiarazioni – bisogna ammetterlo – non è per niente eccitante. Insomma, un’intervista indiretta permette al giornalista di avere le mani più libere.

Questa tecnica, inoltre, si usa quando non si ha un numero elevato di risposte che possano tenere in piedi un pezzo da sole. È il caso delle brevi interviste telefoniche, e delle interviste volanti: in un’intervista indiretta si possono contestualizzare i fatti, si analizza la situazione da più punti di vista e ogni tanto si aggiunge una dichiarazione dell’intervistato. Talvolta si inseriscono nello stesso articolo diverse interviste indirette fatte a più persone riguardo lo stesso argomento: l’esempio classico è quello del pastone politico, presente ogni giorno sui quotidiani e nei telegiornali.

L’intervista indiretta va usata anche nel caso di una conferenza stampa perché non si è trattato effettivamente di un colloquio faccia a faccia giornalista-personaggio. I giornalisti presenti alla conferenza appartengono alle diverse testate della stampa e della televisione, e a turno pongono una o due domande all’interlocutore: l’uso di una rielaborazione in forma di intervista diretta sarebbe forviante per il lettore. Innanzitutto non tutte le domande sono state fatte dal giornalista che scrive il pezzo, e nessuna risposta è stata data solo a lui. Purtroppo non mancano i casi di conferenze stampa rielaborate in forma di intervista diretta, soprattutto nell’ambito del giornalismo sportivo. Non  sbaglia chi le definisce “false interviste”.

 

2.3 L’intervista e la notizia: una classificazione

 

L’intervista che produce la notizia

Nell’intervista giornalistica la notizia è l’intervista stessa. In teoria, ogni intervista dovrebbe contenere delle dichiarazioni di pubblico interesse catalogabili come “notizia”. Certo, c’è notizia e notizia: quando l’imprenditore Silvio Berlusconi nel 1994 annuncia ad un quotidiano la sua decisione di entrare in politica, questo fatto è certamente una notizia di primaria importanza. Se invece Flavia Vento descrive qual è il suo uomo ideale, qualche dubbio sulla “notiziabilità” dell’intervista viene.

Leggendo le interviste scritte dei quotidiani, e ascoltando quelle dei telegiornali, spesso è difficile trovare una notizia centrale, un fatto importante, una curiosità che spicchi nella successione di domande e risposte. Molto dipende sempre dal tipo di testata, dalla complicità, dalla disposizione dell’intervistato a dare la notizia: però non è difficile leggere un’intervista vuota, arrivare alla fine e chiedersi: qual era la notizia?

Un esempio è  l’intervista a Francesco Totti della Gazzetta dello Sport, realizzata il  23 Agosto 2005. Il colloquio con il capitano della Roma è annunciato in prima pagina dall’apertura roboante “Vi dico tutto”, e viene introdotta dal titolo alle pagine 2 e 3: “Le mie verità”. In realtà l’intervista è costituita da molte considerazioni banali, altre scontate, non c’è una vera e propria notizia che spicchi dal pezzo. Si parla della nuova Roma, delle sue opinioni sulle favorite per il campionato, del suo rapporto con la moglie Ilary: per carità, tutte cose che ci stanno in un giornale sportivo. Però non giustificano né sostengono un’apertura così eclatante. Comprando la Gazzetta e leggendo il titolo “Le mie verità”, un lettore si aspetta qualche scoop, almeno delle risposte originali, qualcosa che il giocatore non abbia mai detto a nessuno. Invece non si trova niente di tutto questo.

Tra intervista e notizia, dunque, non c’è sempre una correlazione stretta. A volte la notizia è assente, come nel caso di Totti, e l’intervista risulta vuota. Nel descrivere il rapporto tra i due elementi (notizia e intervista), distinguiamo altre due tipologie del genere.

Un primo tipo di intervista è quella che “produce la notizia”. Si tratta di colloqui dai quali scaturiscono informazioni inedite o scoop  inaspettati: le dichiarazioni sono una notizia e provocano reazioni sulla stampa nei giorni seguenti. Qui le risposte, abilmente ottenute dal cronista oppure fortunosamente conquistate, c’è già una notizia, che in certi casi diventa anche la notizia del giorno. Durante l’ultima campagna referendaria sulla procreazione assistita abbiamo avuto due notevoli esempi. 

Romano Prodi, leader cattolico della coalizione di centro-sinistra, ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera che lui sarebbe andato comunque a votare, nonostante la Chiesa avesse consigliato l’astensione per far fallire i quattro quesiti proposti dai radicali. Il voto è un dovere istituzionale, mi ritengo un “cattolico adulto” e perciò andrò a votare: questo in breve il pensiero espresso da Prodi. Appena pubblicata, l’intervista provoca contrasti nel mondo politico e nel mondo cattolico. I leader si dividono e irrompe una polemica durissima che dura sino al giorno dei referendum: tutto per quella espressione, “cattolico adulto”, detta da Prodi all’interno di un’intervista. Il dialogo con l’intervistatore ha prodotto una notizia che prima non c’era.

Veniamo al secondo esempio. Il partito di Gianfranco Fini, Alleanza Nazionale, si era schierato in maggioranza per l’astensione. In un’intervista a Repubblica Fini annuncia qualche giorno prima del referendum  che andrà a votare “tre sì e un no” ai quattro quesiti proposti in materia di procreazione assistita e manipolazione genetica. Subito si scatena lo scontro all’interno di AN: alcuni esponenti si dimettono, altri si indignano, altri ancora parlano di tradimento. Anche l’’intervista di Repubblica ha prodotto una notizia.

Paolo Murialdi[55] individua un’intervista di questa tipologia che ha inciso nella la storia del giornalismo italiano.

“Cesare Lanza intervista per il settimanale Il Mondo Indro Montanelli. L’intervista, che esce il 18 Ottobre 1973 – dal titolo L’anti-Corriere – provoca il licenziamento di Montanelli dal Corriere della Sera per le affermazioni polemiche contro il giornale in cui lavora e contro un esponente della proprietà. Si apre praticamente un ‘caso Montanelli’, che si concluderà il 25 Giugno 1974, con la nascita del Giornale”.[56]

Al tempo di questa intervista, erano noti i contrasti tra Montanelli e la linea editoriale dell’allora direttore Piero Ottone. Già si vociferava di una possibile uscita del giornalista dal Corriere: l’intervista di Cesare Lanza accelerò il processo e favorì la secessione montanelliana che portò alla fondazione del Giornale.

Quando parli di tradizione infranta al Corriere, puoi chiarire  a cosa intendi riferirti?

Chiariamo pure. Quando si dice che il Corriere della Sera è cambiato per l’intromissione dei nuovi proprietari Agnelli e Moratti si dice una volgare menzogna. Dei tre proprietari del Corriere, chi fa sentire la sua interferenza sul giornale è a mio giudizio l’ultima rimasta della vecchia proprietà, Giulia Maria Crespi, non i due nuovi entrati. Sono convinto che dal giorno in cui il giornale è andato in passivo, la sua indipendenza è affidata soltanto al tatto, al senso di misura, alla generosità, allo spirito caritatevole di coloro che lo hanno rilevato e che, visto che ci rimettono soldi, avrebbero il diritto di strumentalizzarlo per i propri interessi. Se non lo fanno, noi giornalisti dovremmo sentirci beneficati, e questa è una posizione che a me non piace.

(….) Come giudichi la trasformazione del giornale, da Alfio Russo a Spadolini a Ottone?

Russo rinnovò molto, ma rispettando la linea del giornale. Intendiamoci: non vorrei che si pensasse che io sono per la mummificazione del giornale, certo i cambiamenti devono essere fatti. Se io dovessi (Dio me ne guardi!) creare questo nuovo giornale, non rifarei certo il vecchio Corriere di una volta. Ma del vecchio Corriere prenderei alcune cose, quello stile corriere della sera, riconoscibile e riconosciuto. In che cosa consisteva questo stile? È difficile definirlo, ma vorrei dire che in fondo si trattava di un certo distacco nel modo di affrontare i problemi, un modo antidemagocico di affrontare la realtà. Questo stile oggi non esiste più - incalza Montanelli con occhi furenti - Non discuto la linea politica del Corriere attuale (anche perché non capisco di che linea si tratti: nella stessa pagina c’è tutto e il contrario di tutto). Non discuto la fattura: il giornale è tecnicamente buono, più svelto di prima. Quello che discuto è lo stile. Disordinato, tumultuoso, terribilmente demagogico. Ecco quello che mette me e la vecchia guardia del Corriere della sera a disagio.[57]

 

L’intervista in reazione alla notizia e sue degenerazioni

La seconda tipologia di intervista è quella “in reazione alla notizia”. Una volta accaduto un fatto, si cercano le reazioni di personaggi connessi con l’avvenimento oppure di gente che, per il proprio ruolo, può dare un giudizio autorevole sulla questione. Oggi si sta diffondendo la moda di interpellare politici, economisti, attori, sul fatto del giorno: si tratta di brevi interviste, spesso telefoniche e il più delle volte volanti, con poche domande e poche risposte. Ciò che conta è la reazione del personaggio all’avvenimento-notizia, il suo pensiero in merito, la sua opinione. Le riflessioni dell’interlocutore possono facilitare la costruzione di un giudizio da parte del lettore: soprattutto quando si parla di argomenti complessi o lontani dalla quotidianità, queste interviste possono aiutare chi legge a farsi un’idea, a capire qualcosa in più, a interpretare la realtà  da un nuovo punto di vista.  Non è escluso, inoltre, che le interviste in reazione alla notizia possano a loro volta produrre una nuova notizia.

Questo tipo di colloqui non sfuggono alla logica della semplificazione e polarizzazione dello scontro: su un determinato argomento, i giornali tendono a individuare due schieramenti, uno opposto all’altro, per facilitare la scelta di campo del lettore che si schiererà con l’uno o con l’altro fronte. Il risultato è che spesso nella stessa pagina ci siano due interviste in reazione a una notizia, con opinioni diametralmente opposte. Se, ad esempio, si analizza un fatto politico in genere si interpella un esponente di destra e uno di sinistra; quando si analizza il ruolo delle truppe italiane in Iraq, si intervista un personaggio favorevole e uno contrario, e così via. Vediamo un esempio concreto.

Sul Corriere della Sera, nelle pagine dedicate alla cronaca milanese di Lunedì 1°Agosto 2005, un articolo spiega che Milano è la città più sorvegliata d’Italia attraverso l’uso delle telecamere. Sotto il pezzo di taglio alto, ci sono due brevi interviste a due filosofi che aprono un dibattito sul rapporto tra sicurezza e privacy.

La prima, a Giulio Giorello, è intitolata: “Giorello: viviamo in un Grande fratello / Si è perso il diritto alla cittadinanza”; la seconda, a Paolo Del Debbio, ha questo titolo: “Del Debbio: siamo in emergenza / Tutelare l’incolumità delle nostre famiglie”.

 Presentando una a fianco dell’altra queste due interviste, il giornale ha dato spazio a due pareri opposti sulla questione lasciando al lettore la scelta dell’opinione più condivisibile.

Un altro  strumento usato per captare le reazioni e i pensieri della gente su un avvenimento è l’intervista all’uomo della strada. Dovrebbe permettere ai lettori di identificarsi ancor più con i pareri degli intervistati. Ne fanno largo uso i telegiornali, ma anche sui quotidiani cartacei stanno gradualmente aumentando di numero. Rispondono alla logica dell’“andiamo a vedere cosa ne pensa la gente”: un inviato viene mandato per le vie di una grande città, solitamente Milano o Roma, e ferma i passanti chiedendogli un parere su una notizia. Il collage delle opinioni di questi sconosciuti  costituisce il servizio. Aumentano i prezzi? Comincia la stagione dei saldi? Il caldo tocca dei picchi record? Per ogni evento si interpella la gente comune, vicina al target dei lettori o dei telespettatori. Così facendo si deresponsabilizza il giornalista, il cui compito è mettere il microfono davanti ai passanti e selezionare gli interventi più interessanti, e si facilita l’identificazione con chi legge o guarda il servizio.

Mario Furlan descrive questa categoria di intervista analizzandone anche gli svantaggi: “L’intervista all’uomo della strada dà un’impressione di spontaneità e freschezza. A volte si tratta solo di un’impressione, perché si trascrivono solo le interviste che si vogliono. E così diventa facile sostenere che l’uomo della strada la vede in un certo modo: è la gente che lo dice…”[58]

Gli effetti di questa vera e propria moda non sono sempre positivi: i pareri riportati sono spesso banali e vengono scelti apposta per avvalorare la tesi del giornalista. Invece di prendersi la responsabilità di commentare il fatto, insomma, l’autore seleziona pareri che condivide ma che non fa lui in prima persona.

A Enzo Magrì l’intervista all’uomo della strada proprio non piace: “C’è una tendenza esagerata del voler sentire a tutti i costi l’uomo della strada. Si ottiene quasi sempre la fiera dei luoghi comuni: si cerca di identificare il telespettatore con l’uomo medio, ma il risultato è la banalità, l’ovvietà. Si vede chiaramente come è il giornalista a mettere in bocca al passante cose ovvie, proprio perché ormai ci si aspetta il luogo comune e non la notizia da questi interventi. Ad esempio, dopo la recente morte di Giovanni Paolo II, c’erano tanti cronisti che chiedevano ai pellegrini: ‘Cosa state provando?’. È  un’orgia delle frasi fatte. Perché a domanda idiota si ottiene sempre una risposta idiota”.[59]

Chiudiamo con il giudizio di Sergio Lepri, il quale riassume il discorso fatto finora:

“Un tipo di interviste da limitare al massimo sono quelle che alcuni telegiornali, allo scopo di spettacolarizzare un tema della giornata, fanno in strada interpellando sul tema qualche passante: le risposte sono quasi sempre banali e insignificanti, perciò inutili; e se non lo sono, specie su temi politici, significa che l’intervistatore ha scelto i passanti in modo da confortare la sua tesi. Un campione di tre o quattro persone non è mai un campione serio”.[60]

 

2.4 L’intervista nei settori del giornale

 

L’intervista politica

E’ noto da tempo che gli italiani si siano disaffezionati alla politica: il Palazzo è ormai sempre guardato con sfiducia, sdegno, indifferenza se non odio.  In quanto detentori del potere, in Italia i politici sono raramente considerati persone affidabili. Le interviste politiche sui giornali soffrono conseguentemente di un deficit di credibilità e interesse che dipende da questa sfiducia oltre che da  fattori più tecnicamente giornalistici.

Innanzitutto, se un politico decide o consente di rilasciare un’intervista, risulta difficile non credere ad un suo personale tornaconto. Il giornalista deve evitare di ridursi a megafono del potente che vuole veicolare un suo messaggio attraverso i media. Anche nell’evidente disparità di potere e di autorità che c’è tra politico e cronista, si deve tentare sempre di stabilire un rapporto leale ma paritario: che non scivoli nell’intervista in ginocchio, dove l’intervistatore si prostra davanti all’interlocutore senza porgli alcuna domanda scomoda e lo asseconda  ossequiosamente. Ben sapendo che il lettore è in grado di riconoscere un’intervista ben fatta da uno spot politico gratuito. È condivisibile in merito l’opinione di Umberto Eco: “Questo tipo di intervista è uno strumento politico e come tale è attendibile, non nel senso che si debba credere a ciò che l’intervistato dice, ma nel senso che si può ritenere che l’intervistato volesse esattamente dire quelle cose. Spesso il fatto che volesse dirle, fa già notizia da solo”.

Resta sempre il dubbio che esista un interesse o un doppio fine dietro alle dichiarazioni: situazione nella quale il giornalista viene strumentalizzato

Sembra passato un secolo  delle agguerrite interviste di Oriana Fallaci, che per l’Europeo metteva all’angolo politici del calibro di Henry Kissinger o Gheddafi.

Piuttosto,  a sentire Furio Colombo, al giorno d’oggi bisogna diffidare dalle interviste con i politici: “Sia Hitler che Mussolini, sia Stalin che Mao sono stati intervistati da giornalisti famosi o addirittura da rispettati scrittori. Ma, in quelle interviste, non c’è traccia di verità o alcun tipo di informazione utile al di là dei desideri del potere. Persino le interviste della libera stampa americana con i propri presidenti raramente lasciano il segno. Anche quando non sono un atto di omaggio o assecondamento, anche quando non si svolgono secondo le regole del potere, hanno ambiti stretti e possibilità modeste di trasformare la conversazione in rivelazione”.

Già nel 1983, l’allora direttore del Tg2 Andrea Barbato analizzava il delicato ruolo dell’intervistatore nel colloquio politico: “L’intervista è un po’ il canale attraverso il quale passa tutto, la classe politica esprime se stessa, si duplica, moltiplica la propria immagine, le proprie opinioni, parlando attraverso queste interviste che fanno sì che i giornali diventino una specie di registratore, di videocassetta, di verbale stenografico dell’opinione altrui”[61].

Non è solo l’essenza del potere a influire sull’intervista politica: anche il linguaggio tecnico è una sua caratteristica peculiare. Mattarellum, proporzionale, liste civetta, ribaltone, scorporo sono soltanto alcuni dei termini che fanno parte del mondo politico, e che spesso riempiono la bocca dei parlamentari. Le interviste politiche, dunque, presentano conseguentemente termini astrusi, frasi tortuose, concetti difficili da capire per un cittadino non avvezzo al politichese. Il giornalista a volte è complice di questa oscurità di linguaggio perché vuole collocarsi a tutti i costi all’altezza del personaggio, e allora infarcisce le domande di termini tecnici di difficile comprensione. Sui quotidiani capita così di trovare pagine intere di discussioni sulla legge elettorale, mentre in tv c’è ogni giorno il servizio pastone con le brevi dichiarazioni degli onorevoli, ironicamente definite da Beppe Severgnini le “testine dondolanti”. 

Stefano Lorenzetto spiega così i lati negativi dell’intervista politica televisiva: “Prendi Marco Follini, ogni santo giorno lo interpellano sulla situazione politica, gli mettono il microfono davanti e lui in sette otto secondi fornisce una dichiarazione perfetta come se fosse uscita dal catechismo di Pio X, usando non più di 50 parole, magari ci inserisce anche una battutina. Di fatto però non dice nulla, non dà informazioni: noi vogliamo sapere se vuol fare cadere il governo oppure no, e ci tocca sentire il suo pensierino del giorno. Il fatto è che ormai le interviste politiche non interessano più nessuno, il distacco tra la classe dirigente e la gente comune è tale per cui mi chiedo chi in Italia oggi legge una intervista a Mastella… Parlano in modo incomprensibile, così l’intervistatore crede di fare bella figura perché si ritiene all’altezza del politico, e il politico esce bene dall’articolo. Non ci sono mai domande scomode in questo tipo di interviste. Il più delle volte si mettono d’accordo prima, il giornalista chiama e dice: ‘Dai concedimela così vedrai che ti faccio fare bella figura’. Risultato: niente interesse”[62].

Anche un acuto intervistatore come Gian Antonio Stella del Corriere della Sera considera il linguaggio politico un problema nelle interviste: “Provatevi voi a lasciar andare a ruota libera, per esempio, uno come Ciriaco De Mita. Vi ritroverete frasi tipo: ‘È  una semplificazione che la politica e i politici siano giudicabili solo sul loro grado di onestà individuale per cui l’esigenza della trasparenza e della moralità della politica stia nella collocazione di questa esperienza nel limbo etereo e non nella concretezza dei processi storici e politici’. Impubblicabile”.[63]

Sul Corriere della Sera del 4 Agosto 2005, il vicedirettore Dario Di Vico intervista Arturo Parisi, presidente della Margherita e braccio destro di Romano Prodi, sugli intrecci tra politica ed economia dopo la bufera che ha investito Bankitalia. È un articolo che  conferma le osservazioni fatte poc’anzi: l’argomento è difficile e il linguaggio tecnico. Ne riportiamo un brano qui sotto:

I vertici dei Ds hanno dunque sbagliato ad appoggiare i progetti dell’Unipol?

In nome del realismo hanno esitato nel farsi le domande giuste. E così guidati dall’istinto che porta ognuno a difendere il proprio mondo hanno dato l’impressione di avvallare una regressione neo-corporativa. Il vero virus è ed è stato il conflitto di interessi alla Berlusconi. Dobbiamo assolutamente evitare di esserne in qualche modo contagiati tutti.

E il leader del suo partito Ruteli ha fatto bene a criticare i Ds?

In questo caso ho condiviso e condivido le sue posizioni. L’impossibilità di affrontare il tema col respiro che merita ha consentito purtroppo di far passare il confronto per una “polemichetta”.

Banche e governatore. Anche a Palazzo Koch gli interessi le sembrano avere la meglio?

Da cittadino comune ho letto sui giornali quello che hanno letto tutti. Di fronte allo spettacolo al quale siamo stati costretti ad assistere, dire che le dimissioni del governatore sono opportune è eccessivamente riduttivo. Sono doverose. Se dovesse prevalere un atteggiamento irragionevole spero proprio che il Consiglio superiore della banca d’Italia si faccia carico della sua responsabilità ed eserciti i suoi poteri. Lo dico pensando alle persone autorevoli che lo compongono. Basti per tutti Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale.[64]

 

Fino ad ora abbiamo parlato del confronto faccia a faccia politico-giornalista, indirizzato alla carta stampata o alla tv. Esiste però anche un’altra pratica non molto allettante. Si tratta della “mischia”, dove tutti i giornalisti e i cameraman attendono all’uscita dalla segreteria del partito o dal Parlamento i politici e sgomitano per ottenere una loro dichiarazione. Il giornalista canadese Dave Rogers, cronista parlamentare per un decennio, li descrive così:

“Odio gli assalti alla diligenza. Sono poco professionali, ridicoli e disgustosi. Ma se è l’unico modo di arrivare al tizio, bisogna farli. Oggi come oggi, con parecchi politici, è l’unico modo per arrivare fino a loro. In una giornata tranquilla, non è raro trovarsi di fronte al Parlamento in compagnia di 60 persone in attesa come te: 15 telecronisti, ciascuno accompagnato dal proprio cameraman, e 30 radiocronisti. E qualche volta l’interrogatorio no comincia nemmeno, perché il politico è circondato da gente impossibilitata a far domande. Ho sentito politici chiedere disperatamente una domanda, ma senza successo: la gente era troppo impegnata a difendersi da spinte, gomitate e pestoni. Non si può cadere, tanta è la ressa, ma rompersi un braccio o una costola si. I cameraman sono avvantaggiati perché possono usare le telecamere come arma d’offesa e difesa. Per la sua stessa natura, questo tipo d’assalto non può durare a lungo, perché è veramente faticoso, fisicamente insostenibile. E intanto il politico se la ride, perché lui deve fare solo una cosa: scegliere le domande più convenienti a lui. Gliene arrivano quattro o cinque alla volta, e lui sente solo quelle che gli fanno comodo. Hanno imparato a guardare la telecamera, e se sei impallato non ti degnano d’attenzione. Una vera disperazione, insomma. Per tutti, tranne il politico, il quale, quando ha finito, ringrazia e se ne va”[65].

 

L’intervista culturale

Nelle pagine dedicate alla cultura non troviamo mai un rapporto così controverso tra intervistato e intervistatore. Cambiano  soprattutto il tono e  lo stile delle interviste.

Furio Colombo la descrive con queste parole:

“L’intervista culturale sarebbe meglio condurla con il tono amichevole della conversazione. In essa si invita l’autore di testi e di idee a chiarire il proprio lavoro, a prendere atto delle obiezioni, a precisare le intenzioni, a rispondere alle critiche che sono quasi sempre di natura disinteressata”[66].

Nelle pagine della cultura è più il clima è più disteso rispetto all’ambito politico. Il dibattito si fa più ideologico, la polemica verte su argomenti storici, letterari, editoriali. I temi trattati sono trasversali, e i giornalisti che si occupano delle interviste non sempre fanno parte della redazione culturale: anzi, a volte si tratta di prime firme del giornale, cronisti esperti o addirittura scrittori e intellettuali prestati al giornalismo

Recentemente il Corriere della Sera ha intervistato lo scrittore brasiliano Paulo Coelho, dieci anni dopo l’uscita del suo libro più famoso, L’alchimista.

Per vendere 65 milioni di libri esiste una strategia commerciale?

Tutte le ricette per scrivere un bestseller mi fanno ridere. L’unico segreto è il bouche-à-l’oreil, il passaparola.

E anche il favore della critica e lo spazio sui giornali?

La critica deve essere l’ultimo dei pensieri di uno scrittore. È solo l’ultimo passaggio di un lungo percorso. Non è merito dei giornali se ho venduto 65 milioni di copie. Conta più il sostegno degli editori.

(…) Perché viaggia tanto? Non si dice nell’Alchimista che anche i pastori, come i marinai e i commessi viaggiatori, conoscono sempre una città dove esiste qualcuno capace di far dimenticare loro il piacere di vagabondare?

La mia città è l’autostrada. E l’autogrill è la mia casa. Non c’è una spiegazione: sono un nomade, non un sedentario. A Barcellona, per esempio, sono andato ad aiutare una persona che sta scrivendo una biografia autorizzata

Non era meglio scriversela da solo?

No, perché mi annoierei a morte. Non sopporto di rivisitare il mio passato. Sarebbe un suicidio. Io sono vivo soltanto nel presente.[67]

 

Accanto alle pagine culturali, in ogni quotidiano troviamo sempre le pagine dedicate agli spettacoli, con le relative interviste ad attori, registi, personaggi televisivi.

Qui il rischio è quello di cadere nell’intervista promozionale: un attore parla volentieri e benissimo del suo ultimo film, un cantante spiega con dovizia di particolari il suo ultimo disco. Il giornalista deve essere bravo a stimolare l’intervistato con domande intelligenti, portargli delle critiche, uscire dal suo orticello allargando l’orizzonte dei quesiti. Per evitare di fare dell’intervista una forma di pubblicità non pagata.

Ad esempio, Repubblica ha intervistato in occasione dell’ultimo festival del cinema di Venezia il regista americano Tim Burton.

Mentre il suo “Charlie e la fabbrica di cioccolato” sta trionfando in tutto il mondo, Tim Burton sta già accarezzando il suo nuovo film, anzi accarezza il pupazzo protagonista di “Cops Bride”.

Voglio bene a Victor. Ha le sembianze di Johnny Deep perché Johnny è il mio alter-ego, e incarna perfettamente il solitario fuoriposto in un mondo ostile che a me piace tanto. Credo che questo film sia il completamento di Nightmare before Christmas. Qui ci sono più personaggi umani, cosa molto difficile da realizzare con questo medium, ma il feeling è simile.

(…) Per Cops Bride sono stati usati nuovi  dispositivi per le espressioni facciali.

Il bello della tecnica stop-motion è la sensazione che tutto sia disegnato a mano. È come “Pinocchio” o “Frankestein”: dare vita a un oggetto inanimato. E per me è una gioia vedere la mano dell’artista sullo schermo. [68]

 

L’intervista sportiva

“Abbiamo fatto una buona partita, sono contento per il gol ma ancor di più per la squadra. Ringrazio il mister che mi ha dato la possibilità di giocare e spero di avere ripagato la sua fiducia”. Questa dichiarazione potrebbe essere stata fatta da un qualsiasi calciatore interpellato al termine della partita dal cronista sportivo di turno.

 In Italia parlare di sport equivale (purtroppo) a parlare di calcio. E dire interviste nel calcio equivale a dire banalità. Ogni turno di campionato o di coppa le Tv e i giornali si riempiono di interviste ai protagonisti, i quali ripetono sempre le stesse quattro frasi, sulla squadra, la voglia di fare bene, i complimenti all’allenatore se le cose vanno bene, e via dicendo. Per non parlare del precampionato estivo, dove alla presentazione del nuovo acquisto non mancano frasi come: “Sono in una grande società che ha fatto tanto per avermi qui”, “sono orgoglioso di vestire questa maglia”, “penso che  chiuderò qui la carriera”, “non vedo l’ora di allenarmi e giocare con i nuovi compagni”. Si potrebbero quasi scrivere senza farle, le interviste calcistiche.

Le ragioni di queste dichiarazioni-fotocopia vanno ricercate nell’intricato sistema che in Italia regola i rapporti tra il mondo dell’informazione sportiva e le società calcistiche.

In questi ultimi tempi di business sfrenato nel calcio, di investimenti milionari e di diritti televisivi pagati a caro prezzo dalle emittenti, per una squadra di calcio è diventato essenziale avere una buona immagine da trasmettere a tifosi, sponsor e media. Per questo ogni club si è dotato di un forte apparato di comunicazione, dove gli addetti stampa fungono da filtro tra i giocatori e i giornalisti. Se voglio avere due battute di Christian Vieri, è necessario avere l’assenso dell’ufficio stampa del Milan, per sapere come sta il bomber Adriano di quello dell’Inter.  Le barriere si intensificano ancor di più se le testate osano parlare male della società in questione, oppure vogliono semplicemente uscire dalle domande scontate de tipo: “È  stata proprio una bella stagione questa per te, non credi?”. Naturalmente le maglie si allentano se la testata ha un occhio di riguardo per la società.

È difficile poter intervistare i protagonisti. Ancor più difficile è  porre domande scomode, se i giornalisti vorranno avere il piacere di intervistarlo in futuro… In questo clima - che qualcuno non esita a definire ricattatorio – le società arrivano a promettere l’intervista esclusiva di uno dei suoi giocatori più rappresentativi con una testata. La quale, in cambio, non critica sulle sue colonne o nei suoi servizi tv la società in questione, il suo allenatore e i suoi giocatori. Le società hanno il coltello dalla parte del manico: come segno di disaccordo nei confronti della critica, possono anche attuare il silenzio stampa.

Durante tutto il corso dell’anno, le società calcistiche preferiscono parlare con i media attraverso le conferenze stampa, dove a turno un giocatore risponde ai quesiti di tutti i giornalisti della stampa, della radio, e della televisione. In Champions League questi incontri con la stampa sono addirittura obbligatori il giorno prima della gara, alla presenza dell’allenatore e del capitano di ogni squadra. Ogni giornalista non può fare più di una o due domande, il tempo è ovviamente limitato, e un addetto dell’ufficio stampa pronto a intervenire in caso di domande “non gradite”.

In alcuni casi i giornalisti di carta stampata rielaborano le risposte date dal giocatore in forma di intervista diretta, come se il confronto fosse avvenuto a tu per tu (cfr cap.1). Inutile dire che si tratta di una grave scorrettezza che inganna il lettore.

Al termine delle partite, invece, la corsa per accaparrarsi le dichiarazioni “a caldo” viene regolata dall’acquisizione dei diritti televisivi. L’emittente satellitare Sky, di proprietà del magnate australiano Rupert Murdoch, ha comprato l’esclusiva della diretta delle partite: quindi al fischio finale i cronisti di questa Tv hanno la precedenza assoluta. Subito dopo, i protagonisti del match devono presentarsi dai colleghi del digitale terrestre (Mediaste o La7). Successivamente, passano dalla Tv di stato; poi dalle altre televisioni private e, infine, giungono stremati dai giornalisti della carta stampata. Mediamente, gli allenatori e i giocatori più importanti ci mettono un’ora prima di liberarsi dalle interviste del dopo-gara con tutte le testate, alle quali naturalmente ripetono più o meno le stesse quattro cose, discutono gli stessi casi da moviola, e rispondono in definitiva alle stesse domande.  Le Tv pagano centinaia di milioni di euro per ottenere i diritti delle partite, e quindi possono avere prima i protagonisti.

Questo regolamento dovrebbe essere una garanzia per il telespettatore e per il diritto di cronaca, in realtà ha numerosi difetti:

 

a) Nei programmi del dopo-gara come Sky Calcio Show (Sky Sport 1, domenica dalle 13 alle 19) o Stadio Sprint (Rai2, domenica alle 17), i protagonisti dai vari campi arrivano in contemporanea, e il conduttore da studio deve districarsi tra i vari collegamenti cercando di trovare un ordine ragionevole delle interviste. Di conseguenza alcuni giocatori o allenatori aspettano molto tempo prima di essere intervistati; a volte stanchi di attendere obbligano il cronista a registrare l’intervista che verrà poi mandata in un secondo tempo.

 

b) Il poco tempo a disposizione non permette di fare un’analisi approfondita con il protagonista. Se l’intervista con il capitano della Juventus Alessandro Del Piero dura troppo, ad esempio, si rischia di dover poi liquidare l’asso brasiliano del Milan Kakà con due battute veloci perché il tempo stringe.

 

c) C’è disparità tra gli intervistatori presenti al campo e quelli in studio. In questi programmi il giocatore viene intervistato prima dal cronista presente negli spogliatoi, poi dal conduttore del programma e in seguito dagli opinionisti in studio.  I quali avendo dovuto vedere otto o nove partite in contemporanea si trovano spesso impreparati e fanno domande banali o fuori tema.

 

d) Con i protagonisti si finisce troppo spesso per discutere a lungo della moviola (abitudine tutta italiana) e degli episodi arbitrali più contestati, finendo con l’annoiare il telespettatore.

 

e) Alla stampa restano le briciole: i protagonisti arrivano dopo troppo tempo in conferenza stampa. Tanto vale non mandare gli inviati allo stadio e trascrivere le dichiarazioni rilasciate a Sky. 

 

Ilaria D’Amico, noto volto televisivo, conduce per Sky il programma  “Sky Calcio Show”, che trasmette il prepartita, le interviste e i commenti alle partite di tutta la serie A. Al fischio finale i protagonisti si collegano dai campi con il suo studio, e lei sceglie i turni di battuta, modera il dibattito e fare delle interviste sensate. Compito tutt’altro che facile.

“La cosa più difficile è trovare il giusto ritmo della trasmissione, per evitare di fermarsi troppo da un giocatore oppure lasciarli troppo velocemente. È un compito arduo, anche perché noi in studio vediamo tutte le partite insieme, e certi particolari possono sfuggirci. La diretta è determinante, da un momento all’altro una dichiarazione o un episodio può scombinare tutta la scaletta che avevamo in mente. Il fatto che io sia una donna ha condizionato molto il mio ingresso in questo campo, forse da me i giocatori si intrattengono più volentieri perché ho uno stile apprezzato e nuovo. Quando guardavo i programmi televisivi quello che mi colpiva era l’impossibilità di sapere cosa succedeva nello spogliatoio, vero luogo sacro di ogni squadra. In genere ciò che si dice o accade lì non si deve mai sapere al di fuori. Con le mie interviste cerco invece di farlo uscire il più possibile”[69].

 

Il calcio cannibalizza gli spazi sui giornali e in televisione. Tuttavia, le interviste migliori sono quelle riguardanti gli altri sport, erroneamente definiti “minori”. Soprattutto durante le Olimpiadi, le massime manifestazioni sportive che ogni quattro anni danno risalto a molte discipline sconosciute o sottovalutate. I giornali e le Tv rappresentano l’evento Olimpiade da ogni angolazione, e l’intervista è certamente uno strumento utile a questo proposito. Un colloquio con i campioni italiani  può essere utile per scoprire storie di uomini e donne che per quattro anni aspettano il loro momento con la storia: capire la loro origine, la loro storia sportiva, la loro fatica risulta interessante e cattura l’attenzione del pubblico. Nel mese delle Olimpiadi i palinsesti delle tv e le pagine sportive dei quotidiani vengono scombinate: la pattuglia di inviati sportivi viene rinforzata dalle grandi firme della testata oppure da cronisti di altri settori del giornale.

È il caso di Gian Antonio Stella, firma di punta del Corriere della Sera, che per Sidney 2000 ha intervistato così la madre di Valentina Vezzali, medaglia d’oro nel fioretto. Eccone l’inizio:

L’oracolo di Jesi, giura la mamma, glielo aveva annunciato tanti anni fa. “Signora, la sua bambina la porto a vincere le Olimpiadi”. Per questo, ieri, mentre se ne stava rintanata col cuore in tumulto sotto i tubi della tribuna, incapace di allungare la testa per vedere come andava l’ultimo duello (“Troppa emozione, troppa… Meglio non vedere”), la signora Enrica Benedetti vedova Vezzali dice che sapeva come andava a finire: con la sua bambina sopra tutti[70].

 

Sempre sul Corriere, Gaia Piccardi ha parlato con la campionessa jesina. L’intervista comincia così:

Il parrucchiere del villaggio olimpico ha sbagliato la tintura. Enrica vezzali quasi non riconosceva più la sua bambina. Poi ha abbozzato: “È un modo per esternare quello che ha dentro”. Cuore di mamma perdonerebbe tutto. Valentina ammette: “Ho esagerato col rosso, gli avevo chiesto un colore scaccia-invidie al posto del solito castano”.[71]

 

 

L’intervista nella cronaca

Nelle pagine e nei servizi televisivi dedicati ai fatti di cronaca, le interviste sono quelle che trasmettono al pubblico un maggior numero di informazioni, se confrontate con gli altri settori fin qui analizzati. Non c’è  l’intenzione di tratteggiare un ritratto del personaggio intervistato, non ci si sofferma sui particolari di colore, o sulle opinioni dell’interlocutore; piuttosto si va dritti al cuore della notizia, e si raccolgono più particolari possibili per fare luce sull’accaduto. Questa caratteristica rende più rare e più preziose le interviste “incontro” (quelle dove il giornalista può intrattenersi faccia a faccia con il personaggio per un periodo di tempo sufficiente a porre tutte le domande necessarie). Sono rare perché è difficile avere un colloquio con le persone coinvolte in un omicidio, o parlare con un ricercato dalla polizia. Sono allo stesso tempo preziose, perché se ben fatte possono portare a dei veri e propri scoop, soprattutto in televisione, dove l’immagine colpisce più della parola scritta e permette di conoscere più da vicino il personaggio (tono di voce, pronuncia, aspetto, abbigliamento non sono visibili negli articolini giornale Nell’estate 2004 per il Tg5 di Enrico Mentana fu un bello scoop intervistare la famiglia di Angelo Quattrocchi, l’ostaggio italiano in Iraq assassinato dai terroristi.  Allo stesso modo parlare con Anna Maria Franzoni, la mamma di Cogne sospettata di aver ucciso il suo figlioletto Samuele, ha fatto impennare l’audience del Maurizio Costanzo Show. Per non dire dell’intervista al killer Donato Bilancia, realizzata in carcere dall’anchorman Paolo Bonolis per la trasmissione di Rai1 Domenica In. L’incontro suscitò un vespaio di polemiche infinite sull’opportunità dell’incontro. In questi casi, le interviste si trasformano in piccoli eventi mediatici, con  il conseguente strascico di polemiche e di discussioni.

Nella cronaca i quotidiani usano soprattutto lo strumento dell’intervista breve, di una o due domande: le risposte consentono di avere più informazioni sull’evento e vengono riportate in forma indiretta. Per ogni fatto importante degli ultimi anni, dall’11 Settembre allo Tsunami, dall’attacco terroristico di Londra alla morte di Papa Giovanni Paolo II, i quotidiani hanno pubblicato molti esempi di questi collage di dichiarazioni. In tempi di frequenti attacchi terroristici, i quotidiani hanno sempre pubblicato pagine e pagine di interviste ai sopravvissuti, ai parenti delle vittime o dei dispersi.

Un altro elemento ricorrente è l’intervista agli esperti. Questi sono criminologi, psicologi, terapeuti, esperti militari, studiosi delle religioni a seconda dell’avvenimento in questione. Il loro compito  dovrebbe essere quello di  inquadrare meglio l’accaduto grazie alla propria esperienza nel campo di pertinenza.

Veniamo ad un esempio concreto di come i giornali usano l’intervista nei fatti di cronaca. Il 6 Agosto scorso, un aereo ATR72 partito da Bari e diretto a Djerba, precipita al largo di Palermo in seguito ad un’ avaria. I superstiti sono 23, i morti 10. A pag.3 del Corriere della Sera del 7 Agosto troviamo un lungo articolo che riporta le dichiarazioni dei sopravvissuti, in forma indiretta, attraverso un collage di brevi interviste. Riportiamo alcune righe del pezzo di Dino Martirano:

Il dottor Roberto Fusco abbraccia con lo sguardo la sua fidanzata Ilaria Lo Bosco, studentessa di Economia. È lei che ha raccontato ai medici come è andata: “Sono viva per miracolo. Mi ha salvata il mio ragazzo. Eravamo seduti uno accanto all’altro e ci siamo stretti forte quando l’aereo ha iniziato a perdere quota. Lui ha capito subito cosa stava accadendo e mi ha slacciato la cintura di sicurezza. Da sola non ce l’avrei fatta, no avrei saputo muovermi: ero bloccata dal panico”. La paura di morire paralizza, annebbia la mente, ma fa fare anche cose incredibili. Racconta Gianluca La Forgia, 25 anni di Bari, ricoverato al “Civico”, che ha ancora in testa un cappellino prestatogli dalla Guardia di Finanza: “Ho sganciato la cintura mentre stavamo precipitando, poi l’impatto violento con l’acqua. Allora ho preso per mano Annalisa e siamo riusciti a infilarci nel varco. L’aereo si è spezzato e così siamo usciti. È stato come in un film, poi mi è venuto in mente il Titanic che ho visto al cinema”. Continua la fidanzata di Gianluca, Annalisa: “È  stato drammatico. Quando sono riemersa grazie al salvagente ho raggiunto l’ala dell’aereo alla quale siamo rimasti aggrappati fin  quando sono arrivati soccorsi. Ma non era facile rimanere in quella posizione perché le onde ci sommergevano. Però siamo riusciti a rimanere attaccato all’ala per almeno un’ora, poi finalmente è arrivata una motovedetta della Guardia Costiera e siamo riusciti a rimanere a bordo”30.

 

A pag.5, di spalla, ecco l’intervista all’esperto realizzata da Claudia Voltattorni. Si tratta di Flavio Sordi, pilota Alitalia con 25 anni di volo sulle spalle. 

L’ammaraggio è l’extrema ratio, ci si arriva quando l’aereo non può più fare nulla

 È una manovra molto difficile?

Si tratta di sicuro dell’operazione più complicata, anche perché quando il pilota decide di ammarare vuol dire che l’aereo è nelle condizioni peggiori

Che significa?

Che non è più in grado di volare e che non può raggiungere alcuna superficie terrestre, questa emergenza in termine tecnico si chiama ditching.

Che cosa si deve fare in questo caso?

Il velivolo deve arrivare ad una velocità bassissima per ridurre l’impatto con l’acqua, quella dell’Atr è di 100-105 nodi (circa 210 chilometri orari).

(...) Come è possibile che l’Atr72 si sia trovato in condizioni tanto critiche?

Bisogna aspettare che si sappia qualcosa di più, però è incredibile che l’aereo abbia avuto un’avaria ad entrambi i motori, è rarissimo che accada.

Cosa pensa del pilota dell’Atr?

È stato bravissimo, ha fatto un miracolo riuscendo a portare in acqua l’aereo senza farlo spezzare né affondare, davvero un miracolo.[73]

 

Quando si riesce a intervistare un protagonista di un fatto di cronaca il confronto può diventare delicato. Bisogna insistere senza sembrare invadenti; accusare senza processare; formulare delle domande che non contengano già dei giudizi sull’accaduto.

Il 31 Ottobre 2002, una scuola elementare di S.Giuliano di Puglia frana a causa delle ripetute e violente  scosse di terremoto che colpiscono la zona, provocando 29 morti e 61 feriti. Due giorni dopo, sul quotidiano La Repubblica esce un’intervista al sindaco del piccolo paese, Antonio Borrelli, il quale ha perso una figlia di sei anni nel crollo. Testimone del tragico evento, il sindaco è stato accusato di aver concesso l’abitabilità all’edificio scolastico anche se questo non rispettava le norme di sicurezza e di non aver chiuso le scuole alla prima scossa. Ecco un brano dell’intervista:

Una strage annunciata, signor sindaco?

Questa è una menzogna bella e buona.

Ma il parroco del paese, dopo la scossa nella notte fra Mercoledì e Giovedì, non aveva cercato di convincerla a chiudere le scuole temendo il peggio?

Non è vero che Don Ulisse abbia telefonato al Municipio. Comunque, in nessun caso ha parlato con me.

Forse però aveva ragione. O no?

Io so soltanto che dopo la prima scossa, quella delle 3 e 24 del mattino, fosse caduto a terra anche un calcinaccio uno, avrei ordinato di sbarrare le porte dell’edificio scolastico.

Invece che cosa è successo?

Giovedì mattina ho domandato agli insegnanti se potevano esserci dei problemi di qualunque tipo. Mi hanno risposto di no. (…)

Sua figlia Antonella e gli altri alunni della scuola elementare e le insegnanti e i bidelli erano sotto una montagna di detriti…

Mi sono messo a scavare come un forsennato, aspettando che arrivassero le prime squadre di soccorso. Poi, ho dovuto fare un giro di ricognizione. Questo è un paese in pratica distrutto, l’80 per cento delle case è inabitabile. Ecco perché è scandaloso puntare il dito soltanto sull’edificio scolastico.

Essendo l’unico che non è riuscito a rimanere in piedi, è inevitabile...

Sì, ma non avete il diritto di prendervela con questa amministrazione comunale. Dovreste prendervela con chi l’ha costruito, cinquant’anni fa.

Ha il timore di essere indagato dalla magistratura di Larino?

Io non temo nessuno, e soprattutto, ho la coscienza tranquilla.[74]

 

2.5 L’intervista immaginaria

 

“Talvolta compaiono interviste immaginarie ora realizzate in forma diretta, ora col discorso indiretto. La tecnica resta inalterata. Sui contenuti chi scrive ricorre alla massima libertà d’espressione e stabilisce l’argomento. Questo genere d’articolo può assumere il gusto dell’esercizio letterario e fantastico. Per la sua riuscita occorre un requisito fondamentale: conoscere bene il personaggio che si sceglie per l’intervista immaginaria. Quanto più verranno usate espressioni appropriate e veridiche rispetto al suo modo di pensare e quanto più si avrà familiarità con al sua persona fisica e con il suo carattere, ricorrendo a particolari, modi di fare, episodi realmente accaduti tanto più l’intervista susciterà curiosità. L’intervista immaginaria può assumere un aspetto di gioco, di “divertissement” o può, al contrario, trasformarsi in un espediente per un ragionamento serio su particolari questioni politiche, morali, di costume, culturali. Un modo di esprimere quel che si pensa e come lo si argomenta, attraverso una terza persona. Non si tratta di un’operazione difficile: oltre ai requisiti richiesti per una normale intervista, qui serve fantasia, una maggiore capacità di immedesimazione in situazioni irreali, di immaginazione, di dimestichezza con argomenti e persone”[75].

Per esempio, sul Sole-24Ore di Venerdì 22 Aprile 2005 viene pubblicato un dialogo immaginario tra due illustri esponenti storici del pensiero laico italiano, il liberale Giovanni Malagodi e il repubblicano Giovanni Spadolini. L’articolo, curato da Salvatore Carruba, Stefano Folli e Fabrizio Forquet, può essere considerato un esempio della tecnica giornalistica dell’intervista immaginaria. L’argomento è l’elezione del nuovo Papa Benedetto XVI.

Giovanni Malagodi: “Caro Giovanni, con il nuovo Pontefice mi tolgo una bella soddisfazione. E sai perché? Ti voglio raccontare un episodio lontano: ai tempi della mia partecipazione alla missione italiana all’Ocse, subito dopo la guerra una sera, dopo cena, scherzammo con i colleghi sull’ordine religioso al quale ciascuno di noi sarebbe stato più adatto. La discussione non fu facile, ma – come ho scritto – ‘su un punto furono tutti d’accordo, tutti e presto: che io, Giovanni, fossi sì fuor di ogni dubbio un laico, ma anche un potenziale benedettino, un frate dell’Ordine primogenito dell’Occidente, quello di san Benedetto. Dovetti ammettere che era vero. Ora et labora – prega, riconosci, tu piccolo uomo, l’assoluto e perditi in lui, lavora, tu piccolo uomo, impiega la tua persona-individuo, le tue proprie doti di intelletto e di volontà per migliorare le umili ed alte cose di questa terra e di questa umanità’. Adesso il nome di Benedetto è stato fatto proprio dal capo della Cristianità: e mi chiedo se nella sorpresa e nell’entusiasmo per il nome che egli ha scelto ci sia qualche traccia del mio sentimento, della mia fiducia nella centralità dell’individuo e nelle sue potenzialità”.

Giovanni Spadolini: “Centralità dell’individuo, già, caro mio, una centralità che a noi laici a volte fa sentire una comunanza profonda con l’umanesimo cristiano. Ne ho avuto la certezza all’indomani del Concilio Vaticano II. Ricordo ancora le parole di Paolo VI… Parole altissime. Lo scrissi sull’Osservatore romano della domenica: leggete libertà al posto di vita, e più che mai il segreto di questo concilio vi apparirà nel suo v ero e più genuino significato di incontro tra i valori perenni del   le posizioni più alte di quella religione della libertà cui lo steso Papa ha riconosciuto dignità di insegnamenti morali e che, ricordando Croce ‘non possono non dirsi cristiane’. Ecco, mi piace pensare, lo spero, che l’’umile lavoratore della vigna del Signore’ sia parte di questo umanesimo”[76].

 

La tecnica dell’intervista immaginaria è stata sapientemente utilizzata nel Luglio del 2004 anche da Oriana Fallaci, che ha scritto un colloquio con sé stessa pubblicato con il titolo Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci.  Attraverso una serie di domande e risposte, la giornalista espone le sue riflessioni sul terrorismo islamico, sulla perdita d’identità dell’Occidente, sulla politica italiana e internazionale, sulla guerra in Iraq e sulla sua malattia che l’affligge da tempo. Ecco l’inizio del libro-intervista:

ORIANA FALLACI. La vedo molto stanca. Molto consunta, molto dimagrita. Come sta?

ORIANA FALLACI. Male, grazie. Però non se ne preoccupi. La testa resiste benissimo (…). È  come se la mia mente fosse del tutto estranea al mio corpo. Un fenomeno interessante. Può la mente opporsi alla morte, ostacolarla, ritardarla? Forse quella formula contiene gli anticorpi che rifiutando di lasciarsi soggiogare dalle cellule impazzite mi forniscono una specie di immunità.

Me ne rallegro e chiarisco subito un punto. Questa intervista non avrà nulla in comune con quelle che facevamo ai potenti della Terra. Il mio ruolo, stavolta, sarà semplicemente quello di porle brevi domande, spronarla a parlare. D’accordo?

D’accordo, ma di punti devo chiarirne altri due o tre. Primo: detesto le interviste, le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevamo ai cosiddetti potenti-della-terra. Per esser buona un’intervista deve infilarsi, affondarsi nel cuore dell’intervistato. E questo mi ha sempre incusso disagio. In questo ho sempre visto un atto di violenza, di crudeltà. Secondo: ho sempre detestato quelle che i giornalisti facevano a me, non di rado manipolando le mie parole, alterandole fino a rovesciarne il significato, aggiungendo al testo scritto domande che non avevano avuto il coraggio di fare e quindi risposte che non avevo mai dato, poi riparandosi dietro il sacro principio della Libertà di Stampa. Infatti a un certo punto dissi basta, non mi beccate più. (…)

Allora perché ha accettato di vedermi?

Perché ho la morte addosso. Però ho tante cose da dire, e un’intervista m’è parsa il mezzo più sbrigativo per dirne almeno alcune.

Il terzo punto qual è?

Questo. La proposta di far intervistare la Fallaci dalla Fallaci mi insegue da decenni. Cento volte me la son sentita rivolgere, cento volte. In ogni lingua, in ogni paese. E l’ho sempre respinta con un secco no-grazie. Io non ho compagni segreti che si nascondono a bordo della mia nave. Non ho bisogno di frugare dentro la mia coscienza attraverso di loro. La mia coscienza traspare in modo lampante da ciò che scrivo, ossia dalle idee che esprimo senza ipocrisia. Non mi piace, insomma, indulgere ad autoritratti. Non mi piace nemmeno offrire il volto ai fotografi, cameraman, alla curiosità della gente. Mi dolgo d’averlo fatto in passato e, ogni volta che vedo quelle dannate fotografie, sbuffo. Anche se stanno sulla copertina d’un libro. (…) Questa intervista è iniziata con la rivelazione brutale della malattia che oggi condiziona la mia esistenza. La domina. Ma a parte il fatto che la mia malattia non la nascondo mai, ne ho parlato per introdurre l’argomento che mi preme. E questo argomento non è la Fallaci: è l’Italia. L’Occidente, l’Europa, l’Italia più ammalata di me. Faremo un’intervista politica, amica mia. Lo sa?[77]

 

Da qui in avanti l’autrice usa le domande immaginarie per spezzare il ritmo delle sue riflessioni sui temi d’attualità espressi con il consueto stile vibrante, polemico nei toni e decisamente aggressivo. La Fallaci si intervista ma è come se scrivesse un libro, imbeccata da una parte di lei che la interroga sul presente. Il risultato è un esempio riuscito del genere dell’intervista immaginaria che in libreria è diventato presto un bestseller.

 

2.6 Stampa e televisione: come cambia l’intervista

 

La tecnica giornalistica dell’intervista si differenzia anche in base al mezzo di comunicazione con il quale viene effettuata. Non è la stessa cosa intervistare la stessa persona per la televisione o per un quotidiano: i risultati sono spesso due interviste completamente diverse per chiarezza, scorrevolezza, impatto e ritmo. Da una parte la forza dell’immagine, capace di trasmettere oltre alle parole tutti i segnali della comunicazione non verbale e del linguaggio del corpo; dall’altra, la forza della parola scritta e la rielaborazione del giornalista, e un brano scritto sul quale si può tornare anche in un secondo momento. C’è sempre un giornalista che pone le domande e un intervistato che risponde, eppure dal punto di vista tecnico possiamo parlare di due incontri differenti per diversi aspetti, che ora analizziamo.

 

a) Il tempo e lo spazio

Il giornalista che deve portare a casa un’intervista scritta, sa già che avrà a disposizione un certo numero di righe, e comunque non potrà in alcun modo uscire dagli spazi concessi in pagina per l’articolo. In televisione è sempre una questione di tempo: non si deve sforare dai tempi del servizio o del programma, né si può temporeggiare per arrivare a tutti i costi alla durata prestabilita. Nelle interviste scritte c’è un maggior lavoro del giornalista in sede di rielaborazione, perché per essere in linea con lo spazio e per rendere leggibile il colloquio l’autore deve esercitare una attenta opera di “taglia e cuci”. È  vero che anche in tv si usa il montaggio per dosare i tempi, ma è meno evidente la mano del giornalista. Addirittura nelle interviste in diretta la rielaborazione è nulla: si manda in onda tutto senza alcun intervento. Beppe Severgnini, che conduce da anni interviste per il Corriere della Sera e per la Tv (Severgnini alle dieci, SkyTg24, Sabato alle 22), vive così il problema del tempo e dello spazio:

“Nei quotidiani c’è più lavoro di rielaborazione, fermo restando che il virgolettato riguarda parole effettivamente dette dall’intervistato: per lo spazio magari bisogna tagliare, mentre nel mio programma Tv facciamo interviste di mezz’ora che mandiamo quasi sempre nella loro totalità. A volte capita di dover tagliare, ma si tratta sempre di pochi secondi”.[78]

 

Questa disparità di tempi tra i colloqui riportati in forma scritta e quelli televisivi è determinante: da questa aspetto, infatti, dipendono anche tutti gli altri elementi che analizzeremo.

 

b) La profondità del colloquio

La complicità tra intervistatore e intervistato, e il livello di profondità delle domande variano molta dalla televisione alla stampa. In poche domande è difficile scardinare le difese di un interlocutore reticente; viceversa se c’è tanto tempo a disposizione l’interlocutore generalmente tende ad aprirsi, a dare più elementi interessanti nelle sue risposte e a parlare di sé in modo meno superficiale. Questa capacità di penetrare nel vissuto e nelle situazioni più intime degli intervistati, resta appannaggio dei giornalisti della carta stampata: in Tv il  tempo non permette quasi mai di andare oltre un numero esiguo di domande, mentre sui giornali le interviste della lunghezza di una pagina possono contenere anche quaranta, cinquanta o settanta domande.

Non a caso è sui giornali che troviamo le interviste “ritratto”, dove si cerca di descrivere un personaggio in profondità. Inoltre le risposte degli intervistati sono più articolate e complete sulla stampa: c’è la possibilità di spiegare termini particolarmente complessi e argomentare le proprie riflessioni con calma e con la garanzia del registratore. In tv magari ci si limita alla battuta ad effetto o alla sottolineatura ironica senza poter entrare nel dettaglio delle questioni.

In proposito Stefano Lorenzetto sostiene:

“Le vere interviste, quelle dove si può ottenere delle informazioni realmente interessanti, rimangono ancora quelle fatte per la stampa. In televisione c’è molto più controllo. Io sul giornale al limite posso anche tagliare le stupidate che possono uscire per sbaglio da chi mi sta di fronte. Davanti alla telecamera  no: c’è il rischio di prendere delle topiche clamorose, e per questo gli intervistati rischiano molto di più. Inoltre non si raggiunge quasi mai la profondità di un colloquio di 4 ore, proprio per la questione dei tempi. Per un’intervista io calcolo sempre un incontro della durata minima di tre ore, anche se l’ideale sarebbe trascorrere una giornata con l’intervistato. A colazione, poi, bisogna sempre avere il bloc-notes a portata di mano: spesso vengono fuori le cose migliori”[79].

A Claudio Sabelli Fioretti, abbiamo chiesto tra le altre cose anche le differenze tra un intervista per la stampa e una per la tv:

 

Un buon intervistatore sulla carta stampata non è necessariamente un buon intervistatore per la tv. E viceversa.

In tv comunque è più facile, si vede se uno è in difficoltà dall'espressione del viso, dalle smorfie dal tono della voce. Sui giornali bisogna essere capaci di trasmettere tutto soltanto con la parola scritta...

E' vero anche il contrario. In tv è difficile scendere in profondità.

Soprattutto per una questione di tempi. Interviste di ore e ore sono impensabili. La tv secondo lei ha influenzato il modo di fare le interviste sui quotidiani?

Una intervista in tv in diretta è tremenda. Bisognerebbe farle sempre registrate. Come in fondo è per la carta stampata. Si registrano quattro ore e se ne mandano venti minuti[80].

 

Mario  Furlan ci dà un esempio di quanto sia importante il fattore tempo: “Augusto Minzolini, cronista parlamentare, lascia parlare i politici per ore di file: alla fine i freni inibitori che hanno con un giornalista vengono meno, gli dicono cose riservate, e lui le pubblica”.[81]

Lorenzetto concorda su quest’ultimo punto: “Conviene rinviare alla fine le domande più scabrose: si è creata fiducia o complicità, l’intervistato è stanco o sciolto, spesso pensa che siano chiacchiere di contorno o curiosità individuali del cronista che non finiranno su carta”.[82]

 

c) L’immediatezza e la comunicazione non verbale

 Il grande vantaggio dell’intervista televisiva, se paragonata con la successione delle parole scritte, è l’immediatezza. Gli elementi comunicativi trasmessi sono molto più ricchi e non sono ridotti alle sole parole. Anzi, a volte più del contenuto risulta interessante il tono con il quale una dichiarazione viene fatta, la gestualità che la accompagna, le pause fatte: anche il linguaggio del corpo conta nelle interviste, e sui giornali è difficile se non impossibile restituirlo. Addirittura Mario Furlan dice che “se le parole trasmettono messaggi, ne trasmette molti di più il corpo, perché possiamo mentire con le parole, ma non con il fisico”. In un’intervista televisiva non si può incorrere in smentite: la telecamera non tradisce, si possono avvertire o vedere le incertezze o gli imbarazzi di chi è chiamato a rispondere. Al contrario sui giornali bisogna fare attenzione al contesto in cui una frase è stata detta, al tono, e si rischia spesso di ribaltare la realtà.

Continua Furlan: “Nel 1995 Massimo D’Alema stava chiacchierando con un cronista del mensile Prima Comunicazione. A un certo punto si è lasciato scappare che preferisce essere intervistato in Tv che dai giornalisti della carta stampata, ‘Perché la Tv è più onesta, non travisa la verità come i giornali’ (…) D’Alema non aveva fatto altro che esprimere qualcosa che all’estero è ormai comunemente risaputo: che, cioè, solo la TV stabilisce un contato diretto con i cittadini, perché elimina la figura del giornalista, diaframma tra politico e il pubblico. Nell’intervista scritta il giornalista interpreta il pensiero di un altro; in Tv l’altro parla direttamente, mostra il suo viso, esprima le sue emozioni, senza bisogno di intermediari”.

Sergio Zavoli condusse per la Notte della Repubblica una serie di celebri interviste televisive. Poi le trascrisse e ne fece un libro contenente tutta l’inchiesta sugli anni di piombo in Italia. Nella prefazione del testo fa un esempio che può essere utile al nostro discorso:

 

Alcune interviste possono risultare significative anche per le risposte che non ottengono. Nell’intervista a Bonisoli, alla richiesta di descrivere il suo ruolo nell’uccisione della scorta di Aldo Moro, ci fu una risposta silenziosa, cioè uno sguardo d’impotenza, di resa e insieme di rifiuto. Poi, la successione di altre domande: “lei ha sparato quel giorno? Quanti colpi?”. “Non ricordo, un caricatore”. “Su chi?”. E qui, il cortocircuito. La domanda è perentoria, e ha l’aria di chiedere: “Glielo devo proprio dire, magari precisando il numero di morti”. Allora allunga una mano verso le telecamera e chiede: “Ci possiamo fermare?”. Io rispondo: “Si, certo…” Il video si oscura e nessuno saprà mai quanto è durata quella pausa. Nel montaggio un attimo; in questo libro, tre puntini di sospensione. Poi l’intervista ricomincia, e ormai ha preso un’altra piega[83].

 

d) La scelta del personaggio

 Intervistare la stessa persona per un giornale o per un’emittente televisiva non è la stessa cosa. Scrivere non è come parlare; parlare seduti in un caffé o  su un comodo divano non è come parlare davanti alla luce rossa della telecamera. Ci sono persone che danno il meglio di sé in televisione, ed altre che invece devono essere intervistate per forza sul giornale. Sentite Stefano Lorenzetto:

 

“Alcuni protagonisti di splendide interviste sui giornali in tv non rendono affatto. Mi viene in mente Aurino Andreoli: avevo fatto un intervista con lui e tutti mi  avevano fatto i complimenti, perché era venuta benissimo, era profonda, quasi commovente. Mi aveva chiamato anche Maurizio Costanzo per farmi i complimenti. Poi lo stesso Costanzo invita al suo talk show televisivo Andreoli e quello non riesce a spiaccicare niente, nemmeno una parola, un disastro.

Pier Paolo Pisolini addirittura decise ad un certo punto della sua carriera di non rilasciare più interviste per la televisione. Quando gli facevano una domanda lui si prendeva un attimo di pausa, guardava le punte delle scarpe, si concentrava e rifletteva sulle risposte, pensava a quello che diceva. Ma in tv spesso non aveva il tempo di pensare alle risposte, perché c’è fretta e  terrore per i silenzi”[84].

 

È necessario fare sempre attenzione, dunque, a quale personaggio si sceglie, al suo carattere, alla sua predisposizione comunicativa, soprattutto alla sua reazione di fronte alla telecamera. Altrimenti si rischia di ottenere un pessimo risultato.

 

e) La preparazione del giornalista

Paul Mac Laughlin individua dal punto di vista della preparazione due differenze notevoli tra intervistatori della stampa e della tv:

I giornalisti della radio-televisione sono migliori intervistatori di quelli della carta stampata; e quelli della carta stampata sono giornalisti più completi. Esistono numerose eccezioni in entrambi i campi, ma nel complesso credo che questo assunto sia vero. Quelli della televisione, per diversi motivi, imparano presto le tecniche dell’intervista. Dato che microfoni e telecamere registrano non solo le parole ma anche inflessioni di voce, comportamenti e il linguaggio del corpo, e date le necessità di struttura e dinamica del mezzo, diventa d’importanza critica sviluppare uno stile. I giornalisti della carta stampata non hanno questa esigenza, quindi, si affidano unicamente alla loro ricerca e alla loro capacità di scrittura. Una storia che dipende interamente da un testimone ottimo, non citabile, può salvarsi solo grazie ad un diligente ricerca e a una prosa brillante, ma importanti informazioni e colorite citazioni possono andare perdute per strada proprio perché non avete fato le domande giuste nella maniera giusta. D’altro canto, la stampa richiede una ricerca molto più esatta e approfondita. Nell’intervista televisiva è possibile cavarsela in qualche modo e scaricare tutto sull’ospite, ma se scrivete per un giornale, un lusso simile non potete permettervelo, soli davanti al vostro foglio bianco[85].

 

Anche Beppe Severgnini ammette di doversi preparare di più per un intervista scritta:

“Nel mio caso, le interviste che faccio in televisione sono tutte a colleghi che bene o male conosco, ho una redazione che mi prepara il materiale e io in un pomeriggio sono già in grado di prepararmi le domande e la scaletta. Sui giornali invece, capita di dover incontrare personaggi mai visti o frequentati, e lì bisogna prepararsi bene e studiare anche per più giorni”[86].

 

2.7 Lo specifico della radio

 

L’intervista radiofonica si caratterizza da una maggiore intimità del colloquio, lontana dalle preoccupazioni dell’audience televisivo. Le caratteristiche di questa tecnica sono facilmente individuabili: l’intervistatore agisce quasi sempre da solo;   il pubblico di ascoltatori è limitato, l’intervista avviene quasi sempre in diretta. Inoltre in radio i tempi si dilatano rispetto alla televisione: le interviste possono essere più profonde, le domande più numerose e si possono toccare argomenti meno conosciuti dal pubblico o meno scontati. L’intervistatore non deve sovrapporre la propria voce a quella dell’ospite e deve evitare delle pause troppo lunghe.  La voce dell’intervistato è un buon canale comunicativo e trasmette alcuni indizi, come il tono, le pause, il volume della voce, l’inflessione o l’intercalare. Sergio Zavoli ha iniziato la sua carriera di intervistatore alla radio, e analizza questa esperienza così:

“L’intervista orale nasce evidentemente dalla radio, dove si faceva un grande abuso di parole. Bastava che una persona sollevasse un qualche interesse per trattenerla a lungo, spesso al di là del necessario Credo di aver parlato con migliaia di persone senza pormi il problema di farmi dire cosa mai dette prima: non ricercavo, insomma, lo scoop. Mi lusingava invece lo scoprire, talvolta, che mi venivano dette cose di cui l’interpellato non si credeva capace, e che perciò non aveva ancora detto”.[87]

 

2.8 Vere e false interviste

 

L’intervista classica è quella dove un giornalista incontra di persona un personaggio, gli pone delle domande, registra e annota il tutto, lo scrive e infine lo pubblica. In realtà, vi sono persone che è difficile incontrare di persona, e quindi si interpellano telefonicamente; altre a cui si mandano le domande scritte; altri ancora a cui si inviano via mail le domande; altri che si vogliono scrivere le domande e le risposte; altri ancora che prima concedono e poi smentiscono… Insomma, le tipologie di interviste si moltiplicano e non sempre è facile discernere tra le “vere” e le “finte” interviste. Vediamo alcuni dei casi nei quali emergono queste trappole:

 

a) L’intervista telefonica

Spesso non è possibile per il cronista incontrare personalmente l’intervistato. I tempi frenetici delle redazioni non permettono sempre un incontro faccia a faccia; in certi casi gli impegni del personaggio consentono solo un breve colloquio al telefono; oppure l’intervistato si può trovare all’estero o in posti irraggiungibili. Per tutte queste ragioni l’intervista telefonica è molto utile: non si vedono i dettagli fisici dell’interlocutore ma è possibile cogliere comunque il tono di voce. Anche le pause, i sospiri, le risatine, i colpi di tosse possono dare un quadro molto preciso dell’individuo. Bisogna ammettere però che il lettore  non riceve la stessa qualità e quantità di informazioni di un incontro a tu per tu. Per questo Stefano Lorenzetto nelle sue interviste pone una condizione: l’incontro non deve mai avvenire per telefono.

In tv capita talvolta di sentire personaggi raggiunti telefonicamente: mentre l’intervistato parla in video si proietta un suo fermo immagine oppure delle immagini di repertorio a lui dedicate. Sui quotidiani invece è una pratica più diffusa, tanto che per Mario Furlan  “sui quotidiani molte interviste, almeno la metà, sono fatte per telefono; il che andrebbe specificato”.[88] Il problema è proprio questo: spesso non vene sottolineato che si tratta di un colloquio telefonico. Il giornalista raccoglie le sue dichiarazioni, e poi le rielabora in forma diretta, come se avesse incontrato di persona l’intervistato. L’intervista c’è stata e dunque chi legge non viene ingannato del tutto, però questa non è una gestione trasparente della tecnica dell’intervista.

Le interviste telefoniche possono anche diventare false interviste: un caso limite che ha dell’incredibile si è verificato proprio nell’Agosto scorso.

Andrea Gibelli, capogruppo leghista alla Camera, a fine Luglio concede un’intervista alla rivista ondine Affari Italiani, nella quale fa suo l’appello alla “discontinuità” nel governo auspicato dal presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, contraddicendo la linea del suo partito. Il giorno dopo, però, smentisce tutto precipitosamente, giura che da tre giorni non parla con un giornalista, che è in vacanza con la moglie e che delle dichiarazioni di Casini ha letto a malapena il titolo. Sul Corriere della Sera del 2 Agosto leggiamo la descrizione dell’equivoco telefonico  che ha portato alla pubblicazione di una “falsa intervista”:

Affari italiani, che ospita spesso e volentieri interviste a esponenti del Carroccio, non si tira indietro. Ma fino a un certo punto: “Il giornalista autore dell’intervista ne conferma il contenuto e può dimostrarlo”. C’è un però rubricato alle voci “rettifica” ed “equivoco”: “Se dall’altro capo del filo a rispondere alle nostre domande, confermando di essere l’onorevole Gibelli, c’era un’altra persona, non siamo in grado di dimostrarlo”. Insomma, si ipotizza che qualche buontempone esperto di leadership e di discontinuità abbia fatto uno scherzo. Quello che è certo è che il cellulare composto corrisponde a una vecchia utenza privata di Gibelli, che lui spiega non essere “più attiva dal settembre 2003”. In effetti chiamando (in serata) quel numero – che comincia per 335-6947… - si ottiene solo “errore di connessione”. Chi ha risposto, dunque, al giornalista, ammesso che non ci fosse Gibelli dall’altra parte del telefono? Non certo uno sprovveduto, visto il contenuto dettagliato dell’intervista.[89]

 

Lo scambio involontario di persona resta un caso improbabile, però porta inevitabilmente alla disinformazione, e fa anche un certo effetto pensare di poter sbagliare interlocutore...

Comunque, quando si è certi che dall’altra parte del filo risponde proprio la persona che vogliamo intervistare, è meglio far presente nell’articolo la forma telefonica del colloquio. Come ha fatto per esempio Marco Pastonesi, il 9 Agosto sulla Gazzetta dello Sport per l’intervista al ciclista Alessandro Petacchi:

Tu-tu, dum-dum, pronto. Tu-tu è il segnale del libero. Dum-dum è la musica della Pantera Rosa. Tu-tu e dum-du-dum si sovrappongono. Poi, o scatta la segreteria telefonica, o irrompe il suo pronto. Pronto, Alessandro?

Mentre si corre nel Benelux e in Portogallo, in Francia e nelle Marche, Alessandro Petacchi è a casa, fra mari e monti, progetti e obiettivi. Riassunto delle puntate precedenti: 12 vittorie per cominciare il 2005, la numero 13 si chiama Milano-Sanremo, altre tre vittorie per arrivare alle quattro colte al Giro d’Italia, poi stop. Ricominciamo da qui: “Rientro previsto al Brixia e al Vallonia per preparare la Cyclassics di Amburgo, invece un leggero stiramento muscolare mi fa saltare quelle corse. Torno direttamente ad Amburgo”.[90]

 

Da questo momento partono le dichiarazioni del corridore spezzino. Grazie all’indicazione iniziale, il lettore è informato che sta leggendo la trasposizione scritta di un colloquio telefonico e non di un faccia a faccia.

 

b) L’intervista via mail

Nel panorama dell’informazione on-line, si sta facendo largo la tipologia nuova dell’intervista via e-mail, attraverso cioè un la posta elettronica. Emilio Carelli, direttore del canale all-news SkyTg24, con un lungo passato al Tg5 e alla direzione del quotidiano on-line TgCom, spiega i motivi di questa nuova tendenza:

Si tratta indubbiamente di un modo di lavorare rapido e comodo, poiché riduce i tempi di lavoro del giornalista, non più costretto a sbobinare le registrazioni audio. Inoltre grazie a questa nuova opportunità si possono raggiungere persone difficilmente contattabili in altro modo.

Accanto ai vantaggi dobbiamo però sottolineare alcuni aspetti negativi. Se da un lato l’intervistato ha la possibilità di rispondere con tutta calma alle domande, sicuro che ciò che scrive non potrà essere soggetto a cattive interpretazioni, dall’altro scrivere le risposte richiede molto più tempo di quello necessario a fornirle oralmente e questo in molti casi si riflette sulla qualità stessa delle risposte, spesso troppo brevi, che rendono l’intervista “povera”. Inoltre il giornalista non può avere la sicurezza che sia davvero l’intervistato a rispondere: per lui potrebbe farlo benissimo un suo assistente.

Eliminare la componente di dialogo porta a una staticità dell’intervista, che rimane rigidamente legata alla scaletta iniziale, al contrario di quanto avviene in un dialogo, dove la risposta a una domanda può indurne altre di chiarimento o di curiosità, non previste inizialmente. Altre volte l’intervistato può omettere cose che non reputa interessanti, quando invece lo sono.

Per effettuare una buon a intervista via e-mail bisogna utilizzare alcuni accorgimenti: si devono fornire poche domande e queste devono essere “aperte”, lasciando ampio raggio di risposta; bisogna avvertire l’intervistato della possibilità di un editing  finale che corregga in parte lo stile, avvicinandolo alla lingua parlata; in ultimo può essere utile suggerire all’intervistato di aggiungere alle risposte anche elementi non trattati nelle domande ma da lui ritenute utili ai fini dell’intervista[91].

 

c) L’intervista con domande già scritte in precedenza

 Un altro tipo di intervista è quella dove il giornalista si presenta al colloquio con domande scritte, che non modifica nel corso del confronto. Siamo in presenza di una pratica rischiosa, perché l’intervista deve essere un colloquio, e quindi una certa risposta può suggerire una domanda diversa da quella preparata: altrimenti capita che l’intervistato, se è furbo, ne approfitta (specie in tv) per affermazioni avventate o non documentate, sapendo che non riceveranno contestazione né replica e neppure una rispettosa richiesta di precisazione. Ancora peggio se l’autore consegna le domande prima dell’incontro all’interlocutore che le richiede. Per Furlan “L’intervista scritta non è una vera intervista, perché non c’è la possibilità di ribattere. La richiede chi ha paura di fare una figuraccia nel faccia a faccia con  il giornalista. Di solito sono le autorità istituzionali a imporla”.[92] Come abbiamo già accennato, il giornale a volte subisce la potenza di certi grossi e preziosi personaggi, i quali non esitano a pretendere che il giornalista gli presenti per iscritto e per tempo le domande. Ma questa pratica non la si può nemmeno definire giornalismo.

 

d)L’autointervista

L’estrema evoluzione della tipologia che abbiamo appena descritto, si verifica quando l’intervistato fa tutto da solo: sia le domande che le risposte.

Ne descrive un gustoso esempio Gian Antonio Stella, a proposito di un incontro con l’ex presidente della repubblica Giovanni Leone.

“Aggi’ faticato pure pe’ lei”, disse il vecchio Giovanni Leone allungando sorridente il malloppo di fogli. Lui si era scritto il cappello, lui le risposte, lui le domande. Con l’immaginario zerbino a chiedere cose tipo: “ a noi che seguiamo con spirito critico ma anche con un filo di speranza (nemici del tanto peggio tanto meglio) l’andamento della discussione sulla legge finanziaria, no appare all’orizzonte alcun profilo positivo…”. E lui a rispondere: “Come al solito voi giornalisti avete centrato un momento di amara constatazione”.

E giù un diluvio di citazione latine, sottigliezze giuridiche e articolati pensamenti dottorali con il cronista virtuale che ogni tanto faceva capolino: “Restiamo colpiti dall’acutezza della sua analisi…” Era soddisfattissimo, l’ex presidente della Repubblica: mai vista un’intervista così fedele al suo pensiero. Avesse potuto fare anche il titolo sarebbe stata perfetta. Potete perciò immaginare il suo stupefatto furore (“Chiamo i carabinieri! Chiamo i carabinieri!”) quando realizzò che così com’era il Corriere non gliela avrebbe pubblicata mai e dunque sarebbe stata integrata dalla chiacchierata registrata.[93]

 

e)A tu per tu in conferenza stampa

Abbiamo già descritto la tecnica di riprodurre in forma di botta e risposta (come se il colloquio fosse stato a tu per tu) una conferenza stampa. Visto che questa pratica rientra a buon diritto nel novero delle false interviste,  vogliamo darne qui un esempio concreto.

 Domenica 7 agosto, sul Corriere della Sera, troviamo un intervista diretta a Luis Figo, nuovo acquisto dell’Inter, scritta da Matteo Garioni. Si tratta delle domande e delle risposte della conferenza stampa del giorno prima, di cui alcuni brani sono già stati trasmessi dalle televisioni. Ora vengono scritte con i quesiti in neretto. Certo, le domande ci sono state, le risposte anche: però non è stato un colloquio faccia a faccia tra Garioni e Figo, bensì un incontro tra il giocatore e la stampa.

Luis Figo, pronto per la nuova sfida?

Ho una grande voglia di fare bene, spero di dare il mio contributo nei futuri successi dell’Inter.

Obiettivi?

Lavorare duramente per ambientarmi in fretta.

E basta?

Naturalmente voglio vincere tutto con questa maglia. In passato ho ricevuto grandi soddisfazioni dal calcio, però questa è una nuova tappa della mia vita: sono convinto che mi regalerà tante gioie.

Come mai ha scelto l’Inter?

Mi sento di essere nato per giocare in questo club, uno tra i più grandi e prestigiosi al mondo.[94]

 

f)L’intervista mancata

 È quella che non si riesce a fare perché l’intervistato si nega. A volte sembra accettarla, poi rimanda, rimanda ancora, e poi trova una scusa per rifiutare. Oppure il colloquio avviene ma l’intervistato pretende che nell’intervista vengano inserite alcune domande e ne vengano eliminate altre. Il giornalista in questi casi resta irritato, e può vendicarsi divulgando il fatto. Ad esempio, può riproporre le domande al pubblico, raccontando il motivo della mancata intervista. Lo fece Enzo Biagi nel 1991, a Rai1, dopo che l’allora Presidente della repubblica, Francesco Cossiga, cancellò l’incontro all’ultimo istante. Biagi andò  davanti alle telecamere, raccontò i fatti e lesse al pubblico le sue domande. E Cossiga naturalmente fece una brutta figura.

In altri casi l’intervista è mancata perché non è stata pubblicata anche se realmente avvenuta. Un esempio è il colloquio tra Claudio Sabelli Fioretti e lo scrittore Ruggero Guarini. L’intervistato, dopo che avvenne l’incontro, diffidò Sabelli Fioretti dal pubblicarla. Al posto dell’intervista con Guarini, su Corriere Magazine esce la travagliata storia di questo colloquio. In questo articolo del Corriere Magazine, è lo stesso Sabelli Fioretti a raccontare la  vicenda:

Abbiamo parlato veramente tanto, quattro ore, davanti a due registratori, un Sony e un Panasonic, e poi si era fatto tardi, giù al ristorante insieme a moglie e cognata, moglie di un giudice di Palermo. Tutti felici e contenti. Sbobino, scrivo, gli mando l’intervista perché gli dia un’occhiata e mi segnali eventuali imprecisioni. Come risposta, mentre il giornale sta per andare in stampa, ricevo il seguente telegramma: “La diffido dal pubblicare l’intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e tendenziosa e comunque non mi ci riconosco. Ruggero Guarini”.[95]

 

g)L’intervista a pagamento

 Succede anche che un personaggio conceda l’intervista a patto di essere pagato.  “Vladimir Zirinovskij, capo del partito neofascista russo, non spiaccica verbo ai giornalisti se prima non gli hanno staccato un assegno. Si giustifica spiegando che “i soldi che i giornali guadagnano pubblicando la mia intervista sono molti di più di quelli che mi danno”. Ma non sono soltanto i palloni gonfiati come lui a pretendere di essere ricompensati. Nei Paesi anglosassoni è abbastanza normale che un esperto (docente universitario, scienziato  o giornalista) si faccia intervistare a pagamento, perché time is money, il tempo è denaro. E poi è una questione di professionalità: se non mi pagano, vuol dire che no valgo nulla. Come sul lavoro, anche nelle interviste il prestigio di una persona si misura da quanto viene pagata”[96].

 Non c’è da stare allegri, se la concessione delle interviste avviene in cambio di denaro.

 

h)L’intervista in ginocchio

 Non è giornalismo neppure l’intervista (capita spesso in ambito politico) in cui il giornalista si limita a porre domande ovvie e banali, o addirittura concordate, che servono soltanto come espediente per permettere all’uomo politico di fare un suo comizietto. Sono le interviste che in gergo vengono chiamate “interviste in ginocchio”.

 

CAPITOLO 3

 

L’INTERVISTA E LA TECNICA GIORNALISTICA

 

3.1 Ottenere l’intervista

 

Un’intervista prima di farla, bisogna riuscire ad ottenerla. Spesso è più difficile ottenere l’assenso del potente all’incontro, piuttosto che tenergli testa durante il colloquio. Paul Mac Laughlin, tuttavia, invita i giornalisti (soprattutto quelli alle prime armi) a non scoraggiarsi di fronte agli insuccessi e alle difficoltà.

“Non hanno detto di no finché non hanno detto di no”. Se l’orso Yoghi fosse un giornalista, riassumerebbe così l’atteggiamento necessario per ottenere un’intervista. In altre parole, non presumere che qualcuno si rifiuti di parlare con te finché non gliel’hai chiesto. Troppe volte ho visto ricercatori e intervistatori arrendersi senza nemmeno tentare. “Non c’è modo di farlo parlare” assicurano. E ne sono talmente convinti che non ci provano neanche. Invece il folclore giornalistico è pieno di racconti di scoop fatti semplicemente alzando la cornetta per chiedere un’intervista.

Se il ricercatore di Daybreak, il programma della CBC Radio di Montreal, non avesse fermamente creduto alla regola di Yoghi, non avrebbe mai avuto un’intervista con l’Ayatollah  Khomeini, subito dopo la presa inn ostaggio degli americani a Teheran, nel novembre del 1979. Questo è il racconto di Bob Mc Keown, che all’epoca conduceva Daybreak.

Il giorno dopo il fatto, Avi Cohen, il nostro ricercatore, propose di tentare un intervista con l’Ayatollah. Erano le sei del mattino. “Certo Avi” dicemmo, e non ci pensammo più.

Poco prima che finisse il programma, verso le nove, la luce rossa del telefono cominciò a lampeggiare, e io chiesi ad Avi, di là dal vetro, chi avevamo in linea.

“Indovina” disse, con aria trionfante.

“L’ayatollah?”.

“No, ma un tizio che parla inglese ed è seduto davanti all’’Ayatollah”.

Non aveva fatto altro che telefonare a Teheran, passando per Parigi. Chiamò per 12 volte finché non pescò una centralinista di Teheran che parlava il francese. Avi le chiese il numero dell’Ayatollah, ma non era sull’elenco. Allora chiamò altre 12 volte, finché non pescò un’altra centralinista che sapeva il francese. Le disse che un  momento prima stava parlando con l’Ayatollah per conto della CBC Radio, e che era caduta la linea. Se le premeva conservare il posto e non voleva tirarsi addosso l’ira funesta del capo della rivoluzione islamica, avrebbe fatto bene a ridargli la linea. La ragazza, impaurita, le dette un numero telefonico.

Era il numero di una sala dove, secondo la legge islamica, l’Ayatollah trattava, per qualche ora e una volta la settimana, i problemi che gli esponevano i rappresentanti dei vari stati islamici. Dopo sette chiamate a quel numero. Avi ebbe al telefono un funzionario che parlava l’inglese e il francese.

“Qual è l’opinione dell’Ayatollah sui fatti dell’ambasciata?”, chiese Avi. “Vuole che glielo chieda? È qui davanti a me”.

Qualche minuto più tardi, con l’aiuto del funzionario che faceva da interprete, ho avuto la prima intervista con l’Ayatollah dopo la presa in ostaggio degli a americani[97].

 

Mai rinunciare, dunque, prima di aver ottenuto il rifiuto.

L’approccio, la presentazione, il primo contatto possono  fare la differenza, e rendere l’intervistato più disponibile durante il confronto. Prima dell’intervista è bene dare delle referenze al personaggio affinché possa fidarsi, oppure focalizzare i temi a lui più graditi. Quindi rassicurarli, cercando quel minimo di confidenza necessario a infrangere le prime barriere difensive di chi abbiamo di fronte.

 

3.2 Questione di preparazione

 

“La situazione peggiore, da intervistato, è quella di rendersi conto di parlare  e rispondere a una persona che non sa nulla di te. Quando iniziano dicendo: “Beppe Severgnini, non ha certo bisogno di presentazioni…”, io invece ribatto: “Mi presenti, mi presenti…” Il più delle volte usano questa espressione perché non sanno nemmeno cosa faccio, dove lavoro, cosa ho scritto…”.[98]

A Severgnini è capitato di essere intervistato da un giornalista impreparato. È un fattore importante, quello della preparazione all’incontro. Anzi, per Sabelli Fioretti è l’aspetto determinante:

“Una buona intervista ha bisogno di molta preparazione. Diciamo almeno un giorno di lavoro, telefonando agli amici e ai nemici, leggendo tutti i ritagli sul personaggio, che spesso sono moltissimi, e se c’è qualche libro da leggere tocca farlo. La preparazione è ciò che fa la differenza  tra una buona e una cattiva intervista”[99].

Informarsi sulla persona da incontrare richiede tempo e fatica, ma è la condizione necessaria affinché le domande non siano ovvie e banali; non cadano insomma nel “già letto, o già sentito”. Più cose si sanno sull’interlocutore, più intelligenti sono le domande e si può spaziare su più argomenti. Inoltre si può tenere testa alle eventuali obiezioni e alle contro-argomentazioni di chi si ha di fronte, senza risultare disinformati o dover accettare passivamente le dichiarazioni. I dati ottenuti in sede di ricerca, inoltre, possono consentire di scegliere il filo del discorso che si vuole seguire, le tematiche da affrontare, le domande da segnarsi, le curiosità da stuzzicare. Per Enzo Magrì “innanzitutto è necessario preparare le domande leggendo i ritagli di giornale ed organizzandole secondo un filo che può essere temporale (se invitiamo il personaggio a parlare della sua vita) oppure logico, e così via. Chiedendo, informandosi, contestando”[100].

Quindi è essenziale farsi una cultura sul personaggio: sulla sua vita e i gusti, le sue idee e le sue antipatie. Questo avviene generalmente attraverso le pratiche di leggere ritagli di giornali o biografie; visionare spezzoni di programmi televisivi in cui quel personaggio è protagonista; usare internet e non sottovalutare la ricchezza delle biblioteche. Successivamente è utile contattare i suoi nemici: probabilmente confezioneranno domande al veleno o suggeriranno qualche argomento spinoso.

Tutto questo lavoro preparatorio può sfociare in qualche appunto da tenere sott’occhio durante il colloquio, oppure nella scrittura delle domande da porgli: è un’operazione faticosa ma porta dei risultati importanti. Infatti l’intervistato apprezza sempre il giornalista che dimostra di conoscerlo bene, e lo prende più sul serio. Sarà così più stimolato a dare risposte significative, perché a domanda stupida corrisponde una risposta stupida. Ovviamente non devono essere sconosciuti al cronista nemmeno l’ambito di lavoro del personaggio, l’organizzazione dove lavora: non si può intervistare un cuoco senza sapere nulla di cucina, né parlare con un esperto di bioetica senza essersi informati sullo sviluppo degli embrioni. Altrimenti si verifica una situazione di squilibrio, e l’intervistato ne approfitta facilmente per infarcire le sue risposte di termini tecnico-scientifici per nulla convincenti: il giornalista non può replicare anche se vorrebbe, perché farebbe la figura del superficiale o del disinformato.

Oriana Fallaci, per essere all’altezza dei potenti che andava a intervistare, si preparava scrupolosamente in ogni minimo dettaglio e non lasciava mai nulla al caso. La sua personalità battagliera e scontrosa era sostenuta dalla perfetta conoscenza delle materie di cui parlava con capi di stato, guerriglieri, generali o presidenti della Repubblica. Senza questa preparazione, e senza la carica emotiva che si portava dietro, la Fallaci sicuramente non avrebbe scritto delle “interviste con la storia” così riuscite.

Nel panorama giornalistico odierno, le interviste di Stefano Lorenzetto si distinguono anche per la scrupolosa preparazione dell’autore. Tanto che lo scrittore e giornalista Rino Camilleri, è arrivato a sostenere: “Un’intervista sta tutta nelle domande: se chi le fa è bravo, allora esce il capolavoro. Ma per essere bravi a far domande bisogna avere doti naturali, e queste non si imparano. Bisogna essere acuti e arguti, pronti  di cervello e preparati, impavidi e un po’ cattivelli, cosa che non guasta. Dovrebbe essere ovvio che, se si vuole intervistare un personaggio, prima si deve raccogliere quante più informazioni possibile sul suo conto. Ma non vi enumero le volte che, intervistato al telefono, ho dovuto io spiegare tutto all’intervistatore, il quale, comandato dal suo direttore di intervistarmi su un certo argomento, aveva semplicemente alzato il ricevitore senza neanche preoccuparsi di sapere chi diavolo io fossi. Ebbene, Lorenzetto è il contrario di tutto ciò: quando ti intervista, attenzione perché è capace di tirarti fuori anche quello che non diresti al tuo confessore”.

Lo stesso  Lorenzetto è stato vittima dell’impreparazione giornalistica: “In genere vengono a intervistarmi senza essersi preparati le domande, e allora sussurrano: ‘Mi dica qualcosa’, oppure chiedono: ‘Di che possiamo parlare?’. Il giornalismo è l’unica professione in cui il principiante viene mandato allo sbaraglio: in chirurgia cosa potrebbe accadere?”[101].

Quando scova i suoi “Tipi italiani”, pubblicati sul Giornale, Lorenzetto si prepara così: “Preparo delle domande scritte, studio le banche dati, cerco su internet, contatto le persone che li conoscono, leggo i ritagli di giornale, e do un’occhiata ai libri che nessuno legge: sono ricchi di fatti e aneddoti, narrati con dovizia di particolari, ignoti al grande pubblico. A me è capitato per esempio con il caso dell’Oro di Dongo[102]. Non bisogna scoraggiarsi al pensiero che tutto è già stato scritto: è vero, ma dentro un racconto organico acquista un nuovo rilievo. Inoltre si possono riprendere temi lasciati cadere in altre interviste. Molte volte l’intervistato in realtà non sa che cosa vuol dire, siamo noi a doverlo stimolare. Già D’Annunzio l’aveva detto: noi non sappiamo mai che cosa vogliamo dire se non dopo che l’abbiamo detto. Grazie alla preparazione si portano alla luce contraddizioni che sono  state evidenziate da eventi successivi alla precedente intervista. Così facendo, inoltre, li si inchioda a cambiamenti d’opinione, è un ottimo stimolo per autodafé, autoanalisi, richieste di perdono, orgogliose rivendicazione del diritto di sbagliare”[103].

 

3.2 L’incontro con l’intervistato

 

Dopo aver ottenuto la concessione dell’intervista, ed aver raggiunto un livello di preparazione adeguata al personaggio e alle tematiche da affrontare, arriva il momento dell’incontro faccia a faccia: qui si decide il successo o l’insuccesso del colloquio, la brillantezza o la banalità dell’intervista.

Il confronto, ricco di insidie e di trappole, deve essere gestito in maniera professionale dal giornalista qualunque sia l’interlocutore e il contesto dell’intervista.

Innanzitutto, che si tratti di un articolo scritto o di un servizio televisivo trasmesso in Tv, dall’intervista deve emergere l’intervistato e non l’intervistatore. È un’osservazione semplice ma a volte trascurata: il giornalista rischia di pavoneggiarsi nelle interviste, di compiacersi e di schiacciare con la sua personalità quella dell’interlocutore. Inoltre non è corretto presentarsi con delle tesi preconcette che poi si vogliono dimostrare a tutti i costi manipolando le risposte: come dire, intervisto Anna Maria  Franzoni per dimostrare che è colpevole di omicidio, il ministro dell’Economia per dimostrare che è un incompetente, oppure un musulmano per dimostrare che è un terrorista.

Si può scegliere la complicità o l’aggressività, ma non si deve cadere negli eccessi di questi atteggiamenti: la totale accondiscendenza delle interviste in ginocchio da una parte; l’incalzare irrispettoso di un processo senza tribunale dall’altra.

Enzo Magrì di interviste ne ha condotte a centinaia, e individua alcune norme di comportamento imprescindibili:

“La prima regola è quella di tenere la distanza tra intervistato e intervistatore. Non bisogna dare del tu, neanche tra persone che si conoscono bene per non dare l’impressione che si tratti di una conversazione combinata. Un sospetto, questo, che subito fa perdere credibilità a tutto quello che contiene l’intervista.

Il rapporto deve essere di reciproco rispetto. Non ci deve essere nessuna deferenza dell’intervistatore nei confronti dell’intervistato, nessuna sufficienza, nessuna irrisione alle risposte che seguono le domande. Perché, in caso contrario, quando il lettore scorrerà l’intervista penserà fra sé: ‘Ma se non ci credi tu a quello che ti dice, perché sei andato a intervistarlo? E perché ci devo credere io?’.

Il rapporto deve essere di parità: non bisogna mettersi davanti all’intervistato, prevaricarlo, né tantomeno mettersi “in ginocchio”. Si deve operare con saggezza, standogli piuttosto “dietro”, o “accanto”.

La parità deve apparire poi nel testo dell’intervista, senza cadere a quel bieco malcostume di alcuni che sono proni al momento dell’incontro e appaiono arroganti, polemici e tracotanti quando stendono l’intervista. Mentre parlano all’interlocutore, usano termini come ‘scusi, mi perdoni se ardisco’, ‘ma davvero’, ‘formidabile’. Invece quando mettono giù l’intervista invece è tutta un’altra musica, e si legge: ‘ma che diavolo racconta’, ‘non sono assolutamente d’accordo’. Il  lettore alla fine lo capisce sempre se un’intervista è finta”[104].

Il giusto equilibrio è difficile da raggiungere. Soprattutto l’interlocutore è un uomo potente: non a caso delle persone importanti si dice che concedono una intervista. Il ruolo e la posizione occupata dall’intervistato possono influire sul dialogo.

Furio Colombo sostiene in proposito:

“L’intervista-ritratto, o intervista-riflessione con il personaggio di potere dovrebbe essere affidata – se mai è possibile – soltanto a intervistatori che abbiano un potere (benché di natura diversa) simile a quello del personaggio intervistato, in modo che ogni rischio di sottomissione sia evitato”[105].

Anche Beppe Severgnini non sottovaluta questo punto. Anzi, lo analizza parlando della sua esperienza.

“L’intervista è sempre un incontro tra due persone che non deve mai essere sbilanciato, ci deve essere un rapporto di parità, altrimenti si rischia di essere ostaggio di chi ti sta davanti. Proprio questo è un punto di forza nelle interviste ai giornalisti che conduco su Sky. Essendo colleghi non c’è mai uno che sta sul piedistallo, io le mie domande le faccio sempre a tutti, di destra e di sinistra, senza rischiare il complesso di inferiorità”.

Una situazione particolare si verifica quando un personaggio chiede ad una testata o direttamente al giornalista di essere intervistato. In genere si fa di tutto per inseguire (spesso a vuoto) determinati personaggi; invece ce ne sono altri che si offrono spontaneamente. Quando capita, ci si deve chiedere perché questo avvenga, quali interessi vi siano in gioco e poi, eventualmente, procedere con l’intervista. In ogni caso il personaggio che vuole essere intervistato deve essere una persona nota, o importante o autorevole, deve avere qualcosa di interessante da dire, e deve essere disposta al confronto con l’intervistatore. E quindi alle sue domande, repliche, argomentazioni, confutazioni.

Claudio Sabelli Fioretti da cinque anni conduce una serie di interviste settimanali con protagonisti della politica, cultura e dello spettacolo: i colloqui inizialmente vertevano sull’abitudine tutta italiana del  “trasformismo”, e divennero subito un genere molto seguito, quasi una moda (che perdura ancora oggi). Tanto che, dopo le prime interviste di successo, qualcuno chiede al giornalista di essere intervistato da lui. Nella raccolta delle sue interviste edita da Marsilio, intitolata Voltagabbana, Sabelli Fioretti racconta questi episodi:

“Ferdinando Adornato, eletto con Forza Italia e nominato presidente della Commissione cultura, mi ha telefonato e ha chiesto di intervenire per motivi personali. Non è l’unico che ha chiesto di intervenire in questa serie di interviste. Alcuni lo fanno per puro narcisismo, altri perché è in uscita un libro oppure perché sta cominciando un programma televisivo. Non nascondo che a me fa piacere. È un indice di gradimento abbastanza buono. Come fanno? Alcuni, timidi, telefonano e dicono: ‘Molto belle le tue interviste, veramente. Certo, ne avrei di cose da dire anche io’. Altri, semplicemente, mandano avanti l’agente, l’ufficio stampa, l’amico. Ma c’è anche chi, più coraggiosamente, mi chiede: ‘Perché non mi intervisti?’. Adornato appartiene a una quarta categoria, quelli che si sentono tirati in ballo da altri e chiedono di intervenire per fatto personale”[106].

Quando abbiamo contattato Sabelli Fioretti, gli abbiamo chiesto qualcosa anche su chi richiede l’intervista:

Si comporta allo stesso modo con chi chiede di essere intervistato rispetto a chi  contatta lei? Non c'è il rischio che i primi la usino come megafono?

Cerco di farlo. Ma è inevitabile considerare chi ti ha chiesto l'intervista con maggiore severità e chi hai contattato con maggiore indulgenza. In ogni caso quando sospetti che ti stiano usando per qualche marchetta devi smascherarli.

Come?

Dichiarandolo, facendolo uscire allo scoperto, mettendolo in difficoltà proprio sull'autopromozione, usando molta ironia[107].

 

L’autorevolezza e la credibilità del giornalista, oltre alle sue intervista già condotte in passato, sono dei buoni deterrenti per evitare di essere strumentalizzati. È un rischio inevitabile da correre, molto più alto nel  giovane reporter alle prime armi che nel cronista navigato. Con esperienza e professionalità si può evitare la trappola. Se ci si limita a mettere il microfono davanti alla bocca dell’interlocutore ponendogli domande vaghe, non precise, si otterranno banalità e pensieri che faranno comodo a chi si ha di fronte, ma non ai lettori. Certo, non è nemmeno il caso di fare della dietrologia, durante l’intervista, e chiedersi continuamente: “Perché ha detto questo?”, “C’è un secondo fine?”, “A chi giova questa dichiarazione?”. L’esperienza insegna quando diffidare delle dichiarazioni ottenute.

Il politico preferirebbe sempre avere di fronte un megafono e non una coscienza critica, e quando intravede la possibilità, è naturale che cerchi di strumentalizzare l’intervistatore per svariati motivi: perché vuole far arrivare un messaggio a qualche altro leader, per rinvigorire la sua immagine pubblica, per falsificare la realtà, per una marchetta.

È da evitare a tutti i costi l’atteggiamento leccapiedi che suscita nell’altro l’idea che il giornalista sia pronto a fargli da tappetino, e quindi a scrivere un articolo sotto dettatura.

Sergio Lepri condanna senza mezzi termini questa passività, volontaria o involontaria, del giornalista: “Che intervista è quella del giornalista, specialmente radiofonico o televisivo, che si limita a porre domande come ‘Qual è il suo pensiero sulla situazione’ e tutto finisce nella risposta dell’intervistatore? L’intervistatore è un giornalista oppure un semplice reggitore di microfono? Un’intervista seria presuppone un rapporto fiduciario tra intervistatore e intervistato; il risultato sarà tanto più valido quanto più l’intervistato saprà di poter contare sull’onestà del giornalista nel riportare fedelmente le parole dette e nel non riportare quelle (capita, a volte) che l’intervistato ha detto con preghiera di usarle solo per una maggiore conoscenza dei fatti”[108].

Quest’ultima osservazione è la chiave per il successo di un’intervista: il rapporto di lealtà che si crea tra i due protagonisti. È come se si stabilisse un contratto: il cronista  promette di essere  professionale nelle domande, corretto nella trascrizione delle risposte, e di lasciare perdere le dichiarazioni off-record; in cambio l’intervistato non deve strumentalizzare il giornalista (ma limitarsi a rispondere alle domande). Il risultato è l’intervista di successo: una sintesi che arricchisca sia il personaggio che il giornalista.

 L’intervista è un patto d’onore tra due persone: da una parte chi fa le domande, dall’altra chi risponde. Il risultato dovrebbe essere una ricostruzione obiettiva del colloquio. Naturalmente ci possono essere discussioni, scambi polemici, confutazioni, opinioni diverse: quello che non deve mai mancare è il rispetto reciproco. Gianni Minoli ha definito questo momento “un gioco psicologico all’ultimo respiro, un vero e proprio match tra due intelligenze, con un’unica posta in palio: la verità di un’anima”[109].

L’intervista può assumere i toni del confronto-scontro: un antagonismo al servizio del lettore, dove il giornalista espone i propri dubbi e le proprie obiezioni in tono polemico e contrapponendosi al potente di turno. Minoli ha tirato in ballo la verità: un concetto nobile, utile per indicare l’obiettivo dello scavo psicologico presente in ogni intervista. Durante il colloquio, il giornalista deve avere ben presente che il suo ruolo è quello di informare i lettori del punto di vista dell’intervistato, lasciando ai lettori il giudizio finale sulle dichiarazioni raccolte. Altrimenti, l’interlocutore diventa soltanto un pretesto per permettere al cronista di intervistare se stesso, di esibirsi, facendo risaltare la sua visione delle cose: un classico esempio di pessimo giornalismo.

Un altro rischio da tenere presente è la troppa vicinanza tra intervistatore e intervistato: una familiarità eccessiva può nuocere al colloquio, e falsare il rapporto tra i due. Non a caso Beppe Severgnini osserva: “L’intervista più difficile che io abbia mai fatto è stata senza dubbio quella con Indro Montanelli: mi sembrava quasi incestuosa. È stata veramente dura a livello psicologico, perché avevo davanti una persona che conoscevo benissimo, colui che mi ha iniziato al giornalismo, il mio direttore per quindici anni, allo stesso tempo maestro e collega. Una vera tortura”[110].

Paul Mc Laughlin ha individuato alcune regole che riassumono le “ragioni” dell’intervistato e quelle dell’intervistatore.

Le ragioni dell’intervistatore

a)Potete avere una scarsa preparazione tecnico-scientifica e quindi sentirvi intimiditi dall’esperto e dall’argomento

b) Potete avere un’istruzione e un titolo di studio inferiore all’esperto, che avrà anche un ufficio, una segretaria e un ottimo stipendio, tutti simboli di potere che voi non avete

c) Potete pensare che gli esperti governativi non siano propensi a dire la verità

d) Potete aver già deciso cosa scrivere

e)Potete essere nervosi o imbarazzati ad ammettere la vostra ignoranza sull’argomento, nella convinzione che per mantenere il controllo della situazione sia meglio fingere di capire

f) Potete interpretare le risposte dell’intervistato come tentativi diretti ad allontanarvi dalla verità

g) Potete avere una scadenza immediata, che consiglia di presentarsi e raccogliere al più presto qualche informazione senza andare troppo per il sottile

 

Le ragioni dell’intervistato:

a)Può avere una tremenda paura di presentarsi in pubblico e di essere inchiodato a una registrazione

b)Può essere stato invitato dal superiore a non dire ai media informazioni compromettenti

c)Può pensare che i media siano interessati solo alle storie negative e a presentare i personaggi sotto la peggiore luce possibile

d)Può considerare squalificante parlare con uno meno istruito di lui e comunque senza una competenza specifica, tanto da essere costretto a spiegare le cose in maniera elementarissima

e)Può temere di essere preso in giro dai colleghi per aver concesso un’intervista a un giornalista qualsiasi, e può non aver alcuno interesse a fornire informazioni per un pubblico che probabilmente non capirà una sola parola

f)Può rendersi conto che il giornalista non ha afferrato l’argomento, senza poter fare niente per rimediare

g)Può essere così ostile o reticente da non dare informazioni importanti[111]

 

3.3 Quali domande fare?

 

Nel suo manuale, Alberto Papuzzi descrive il criterio che regola la scelta delle domande di un’intervista. “L’oggetto dell’intervista può essere o uno specifico argomento, di cui l’intervistato è esperto o su cui è un testimone privilegiato, o la personalità dell’intervistato, le sue vicende, le sue attività, una sua esperienza. Chiameremo tematica la prima intervista, personale la seconda. Nell’intervista tematica si procede con domande precise e reiterate, che non lasciano spazio a risposte generiche. Nell’intervista personale, l’intervistatore deve riuscire a catturare la fiducia dell’intervistato, per cui si parte da domande semplici, che possono riguardare i luoghi in cui una persona ha vissuto, le persone che hanno contato e contano nella sua vita, le sue preferenze artistiche, i suoi gusti, il significato che attribuisce a esperienze comuni. Siamo di fronte a due modi diversi se non opposti di condurre un’intervista: nel primo caso l’intervistato deve essere ricondotto continuamente e ostinatamente nel tema centrale, nel secondo caso è meglio non interromperlo”[112].

Queste considerazioni fanno luce sul complesso tema delle domande.  Questa prima divisione (tra intervista tematica o personale) è un buon punto di partenza. Fermo restando che a domanda sciocca si otterrà sempre una risposta sciocca; viceversa una domanda intelligente otterrà una risposta interessante.

I primi attimi del colloquio non sono mai riservati alle domande più impertinenti.  Addirittura Mario Furlan sostiene che “le prime domande sono da buttare via. Servono solo a rompere il ghiaccio, a tranquillizzare. Intervistando un segretario di partito non possiamo cominciare con: ‘Ma è vero che i sondaggi vi danno in crollo verticale?’, bensì ci soffermeremo sull’importanza degli ideali del suo partito. Se abbiamo di fronte il ministro delle Finanze, non ci conviene parlare subito delle contestazioni sindacali, bensì dei buoni dati economici. Superata la fase iniziale, le domande si fanno più precise. Il giornalista esperto sa sin dall’inizio quali affermazioni può strappare; ma si avvicina alla risposta voluta per piccoli passi. Come un’aquila, vola sopra la preda disegnando ampi cerchi, stringendo via via la traiettoria e calandosi, poco per volta, sempre più su di lei”[113].

In ogni colloquio c’è sempre un fuoco centrale che è la ragione che lo rende importante, che ne fa un pezzo da pubblicare. Attorno a questo fuoco, l’intervistatore deve scavare, finché non viene alla luce la risposta interessante oppure si capisce che è meglio lasciar perdere.

Durante il dialogo c’è sempre un minimo di tensione: l’intervistato ha paura che lo si spremi troppo, l’intervistatore di non spremere abbastanza.

Abbiamo già notato come all’Europeo di Giglio, le domande dovevano riuscire a far dire all’intervistato quello che avrebbe detto se fosse stato capace di dirlo. “Bisognava indurre l’intervistato ad esprimere tutto il suo pensiero – puntualizza Magrì - e se non ce la si  faceva era necessario aiutarlo nel senso di scavare con domande acconce nella sua intelligenza per ricavarne tutto il suo pensiero. L’impegno era quello di estrarre dal personaggio insieme con il suo profilo culturale la sua filosofia, e cercare in lui quanto ci fosse di particolare. Parlo ovviamente delle interviste a tutto campo: una sorta di autoritratto in cui il personaggio si tratteggia e si disegna con l’aiuto dell’intervistatore che gli presta gli strumenti. Per questo motivo era necessario far rilevare i tic, le fisime, il periodare, l’intercalare: da tutta questa serie di elementi veniva fuori il carattere e la personalità. È evidente che se si intervista una persona nota di cui si conosce tutto, nessuna domanda va posta su fatti, eventi ed episodi di cui la gente sa. Insomma, non ci si fa ripetere la sua vita. A volte, infatti, assistiamo in televisione all’insofferenza di certi personaggi ormai noti che sbuffano quando il telecronista gli pone domande le cui risposte sono scontate e risapute da tutti. C’è però un sistema per riprodurre quegli eventi in un altro modo a pro della gente che non li conosce: leggendo la sua biografia, i ritagli con il suo background ci si appunta quelle parti che necessitano di spiegazioni, i risvolti poco noti. Al momento di porre la domanda si riassume l’evento noto per farlo conoscere anche al lettore che non lo conosce (magari è uno solo ma bisogna rispettarlo perché ha comprato il giornale). In questo caso si fanno due cose utili: si rende noto al lettore che non lo conosce il fatto, e si fornisce la spiegazione su un fatto poco noto a qualcuno”[114]. 

Un punto fondamentale, che influisce nella formulazione delle domande, è la capacità di ascoltare. Non esiste un buon intervistatore che non sappia ascoltare: ogni domanda deve essere la diretta conseguenza della risposta precedente. Uno schema di domande si deve preparare, ma è bene fare attenzione alle risposte ottenute, perché in qualsiasi momento potrebbe essere necessario ribaltare tutto. Severgnini lo sostiene chiaramente: “È  necessario segnarsi le domande da fare, costruirsi una scaletta che si deve essere pronti ad abbandonare in qualsiasi momento se le risposte lo richiedono. La cosa peggiore è voler rispettare a tutti i costi l’elenco delle domande, qualsiasi cosa dica l’intervistato. Qualcuno è talmente concentrato sulla prossima domanda che non sta nemmeno ad ascoltare il contenuto delle risposte. Al contrario, bisogna essere elastici e attenti a cogliere ogni sfumatura nelle risposte: stare pronti a deviare l’intervista su un tema nuovo e sfruttare le dichiarazioni per la domanda successiva”[115].

In tutte le interviste si arriva prima o poi al momento più caldo, dove si fanno le domande più scomode e più impegnative. A questo punto si può incappare nella reticenza o diffidenza dell’intervistato, il quale non vuole rispondere, oppure diventa elusivo, sfuggente. Claudio Sabelli Fioretti reagisce così: “Quando vedo l’intervistato in difficoltà bisogna cambiare argomento. Per poi tornarci in seguito. Comunque io uso la complicità: l’intervistato mi deve credere dalla sua parte. Per litigare c’è sempre tempo”[116].

Non bisogna mollare l’osso, ma neppure farne una questione di vita o di morte. L’importante è che le domande siano poste correttamente, in maniera chiara. In proposito, Sergio Lepri mette in guardia da una scorrettezza: “Un tipo di tecnica truffaldina è quello che gli inglesi chiamano: ‘Ha smesso di picchiare sua moglie?’. L’intervistato, non aspettandosi una domanda così fuori regola e fuori tema, cade dalle nuvole e, spesso imbarazzato, risponde che no, non ha mai picchiato sua moglie. Domanda e risposta sufficienti perché l’intervistatore scriva (e qualche volta ci fa addirittura il titolo): ‘Tizio smentisce di aver mai picchiato sua moglie’”[117].

Poche pagine fa abbiamo già sottolineato l’importanza di fare domande precise, e non vaghe. Aggiungiamo qui un'altra osservazione: la domanda migliore è quella che contiene informazioni, fatti, contestazioni. Così risulta più interessante e apre più sentieri possibili da seguire durante le domande successive.

Stefano Lorenzetto ci svela le indicazioni che lui segue per formulare le domande:

“Non dobbiamo aver paura di affrontare, in qualsiasi intervista, gli argomenti forti, quelli che riguardano il destino ultimo dell’uomo: gli affetti, la morte, e il soprannaturale”[118]. E qui snocciola due esempi calzanti: il primo è tratto dall’intervista con Alessio Vinci, reporter italiano di successo della CNN.

Ha rimpianti?

Ho fatto fallire il mio matrimonio. Nel ’96 avevo sposato una ragazza di Brunico. Era venuta a stare con me a Berlino. Nel ’99 ci siamo separati.

Come mai?

Ho dedicato più tempo al lavoro che alla famiglia.

Avete figli?

No. I giornalisti vivono in un mondo parallelo: frequentano solo giornalisti, parlano solo di giornalisti. Sono fuori dalla realtà. A volte mi chiedo: un giorno chi mi terrà compagnia? I miei articoli?

 

Il secondo è tratto dal colloquio con Vittorio Staudacher:

Non ha paura dei fantasmi di Castel Ivano?

I fantasmi sono dentro gli uomini, non fuori. La gente che ha abitato qui ha creduto di vederli per suggestione. Purtroppo i morti sono morti. L’epoca dei fantasmi è finita. Guarita. Gli unici fantasmi che ancora rimangono sono la ricerca della ricchezza e del benessere.

È vietato aspirare al benessere?

«Il benessere è la fata morgana. Un individuo può star bene solo quando perde completamente la capacità di critica. Siamo dentro la moltitudine di uomini che abitano la Terra. Come si fa a non partecipare al pathos universale? Ecco perché l’individuo non starà mai bene. Dovrei essere privo di sensibilità per non pensare a tutti i miei simili che patiscono».

Se non ha paura dei fantasmi, di che cos’ha paura?

Di morire. Lei no? Viviamo immersi in un pianeta di paure: paura di mangiare, paura di respirare, paura di brutti incontri, paura di essere sfruttati. Ma è merito della paura se riusciamo a difenderci dal male. Siamo rimasti uomini primitivi. È difficile avere un’idea di quanto l’uomo sia primitivo. Castel Ivano nell’ultima guerra mondiale fu soggetto all’occupazione militare. Lei pensa che i soldati si siano accontentati di spinare il vino dalle botti? No, sparavano un colpo di pistola e si abbeveravano allo zampillo, il resto per terra. Parlo di soldati italiani, eh. Non tedeschi o Alleati.

Dopo la morte che cosa c’è?

Il nulla. Con una partecipazione armoniosa all’energia che muove il sole e le stelle.

 

Lorenzetto descrive i temi che si devono toccare nell’intervista a tutto campo:

“Dobbiamo sempre avere presente che siamo un impasto di bene e male, raziocinio e follia, miseria e nobiltà: l’intervista si gioca su questi registri, come la vita: il dolce e l’amaro; il caldo e il freddo; il giusto e sbagliato; il buono e il cattivo; l’alto e il basso”[119].

Qui sta il segreto della profondità delle intreviste-ritratto di Lorenzetto: nell’impianto narrativo capace di scandagliare ciò che di più nascosto c’è nel cuore delle persone da lui intervistate. Come in questo brano tratto dall’intervista con Luciano Lutrig:

È stato nel gennaio 1991, proprio qui sotto casa. Io ero andato a Milano a consegnare due quadri. Qualcuno aveva lanciato un filo di ferro a cavallo della linea dell’alta tensione. Mirko ci è passato sotto in bici con i suoi amici. Era il primo della fila. Una scarica da 15mila volt, morto sul colpo. Al ritorno ho trovato un posto di blocco dei carabinieri: "Signor Lutring, vada subito all’ospedale di Arona. Suo figlio sta male". Mi hanno accompagnato all’obitorio. Ho tirato su il lenzuolo, era già freddo, pòer fiolett. Volevo gridarci: "Mirko, svegliati, torniamo a casa. Dai, basta scherzare. Sono Luciano, il tuo papà". Dodici anni aveva.

Mi dispiace...

Per me era più di un figlio. Il mio miglior amico. C’è stato un periodo nero, non vendevo una tela. Passavo le notti in cucina a bere. Lui si alzava dal letto, veniva a sedersi vicino, mi prendeva la mano e mi fissava dritto negli occhi senza dire una parola. Un ometto.

Capisco...

La settimana scorsa in chiesa c’è stata la festa dei ragazzi della sua classe. Reggevano un lenzuolo con sopra disegnato un grande cuore e dentro c’era scritto "Mirko". "Oggi ne manca uno solo", ha detto il parroco. Il vescovo mi ha chiamato per nome: "C’è qui il papà, il signor Lutring". Io avevo una gran voglia di piangere, stringevo i denti per non far scendere le lacrime. Tutti piangevano e io no.

Poteva lasciarsi andare.

Lo so, ma ho questa fama di duro da difendere... Guardi, uno stronzo, ecco cosa sono. Ho perso un figlio, eppure lì in chiesa ne avevo 19. Fuori da messa, non ce l’ho fatta più a trattenermi. Le mie gemelline si sono spaventate: "Papà, perché piangi? Ti senti male?". E io: "Ma no, mi bruciano soltanto gli occhi, con tutto quell’incenso...". Ha mai conosciuto uno più pirla di me?

    Con sua moglie Flora che cos’è cambiato?

Si riteneva responsabile della tragedia, non usciva più di casa. Io cercavo di consolarla, di dirle che non aveva nessuna colpa. Poi si mise a seguire i consigli dello psichiatra di Antenna 3: "Signora, vada a divertirsi". E così una sera il cinema, un’altra sera la discoteca con le amiche, un’altra ancora il pattinaggio. Per un po’ ho portato pazienza. Poi mi sono rotto i ball e ci ho detto: "Adesso basta". Siamo separati da tre anni. Il giudice ha assegnato a me le gemelline, perché per loro sono un buon padre.

Alle sue figlie che cosa ha raccontato di Luciano Lutring?

Hanno 11 anni, ormai sono signorinette. Rappresentano tutto quello che ho, il mio universo. Fra noi non ci sono segreti. Io ci raccomando: bambine mie, comportatevi bene, perché la gente magari non aspetta altro che sbagliate voi per tirare fango addosso a me. Grazie a Dio sono bravissime. Ogni mese metto via due o tre dipinti, così hanno qualcosa da parte per quando saranno grandi. Ho letto che gli scarabòcci di Hitler e di Churchill oggi valgono milioni. Allora c’è qualche speranza anche per i miei quadri. Vorrei rendermi utile almeno da morto.

Signor Lutring, che cos’è per lei l’onestà?

Eh, l’onestà! Una roba astratta, non la vedi, nemmeno nelle persone cosiddette perbene. Sapesse quante volte fra noi della banda abbiamo litigato per il bottino: rapinavamo 100 milioni e la radio parlava di 300. Capito i signori banchieri? Truffavano le assicurazioni. A modo mio credo d’essere stato onesto: spartiva fino all’ultima lira. Ho mai ciulaa i amis. Perché se mi fossi messo a fare il ladro anche con i ladri, che razza di uomo sarei stato?.

 

I tipi di domande che ricorrono in un’intervista sono tanti, ed è sicuramente difficile riassumerli tutti. Proviamo ad immergerci nella giungla di quesiti letti o sentiti sui giornali, ed elencarne alcuni, quelli che ricorrono più frequentemente in un intervista. È una classificazione soggettiva, che non vieta ad un quesito di appartenere a più categorie contemporaneamente.

 

a) Domande maliziose: l’intervistatore insinua un dubbio, prova a entrare nelle crepe lasciate dalle risposte precedente, senza usare un tono diretto ma in modo sottile e provocatorio.

Roberto Gervaso a Bettino Craxi:

Gioca volentieri su più tavoli?

Io non gioco: né coi tavoli, né senza.

Si fa meglio politica sul banco o sotto?

Ripeto: non uso tavoli.

Dicono che abbia un pessimo carattere.

Chi lo dice ha, forse, il dono di rendermelo tale.

Che sia intollerante.

È vero il contrario. Detesto la stupidità e la perfidia    

Dicono anche che sia privo di carisma.

Può darsi, ma non è a me che deve chiederlo. Preferisco, comunque, esser approvato o respinto per le mie idee più che per i miei atteggiamenti[120].

 

b) Domande implicite: sono osservazioni fatte dal cronista che suggeriscono una risposta o una considerazione da parte dell’interlocutore. In chiusura non c’è il punto interrogativo, ma è come se ci fosse.

Daria Gorodisky a Luciano Violante:

Luciano Violante, la Margherita dice che voi Ds “tardate” ad esprimere una posizione sul caso Unipol, come se ci fosse una reticenza.

I partiti seri non sono precipitosi. Noi siamo, a quanto pare, il maggior partito italiano e abbiamo le responsabilità conseguenti a questo peso[121].

 

Sabelli Fioretti a Renato Farina:

Racconta quella notte di Natale, tu e Silvio da soli, ad Arcore.

Premetto una cosa: io voglio bene a Berlusconi. C’è un rapporto di amicizia. C’è una certa confidenza. Quel Natale di due anni fa lui era appena tornato da Roma e mi aveva chiamato verso le otto di sera per dirmi se volevo passare a trovarlo.

La notte di Natale il primo ministro telefona a te…

Tutti i Natali ci vediamo per farci gli auguri. E io gli porto un microregalo. Quella volta gli portai un salame della Brianza lungo un metro. E lui mi regalò un Cartier.

Ci hai guadagnato.

Lui mi disse: “Domani i giornali non escono, vero? Allora posso raccontarle”. E mi raccontò di un’emergenza terrorismo in Vaticano”.

E tu l’hai scritto.

Due giorni dopo. Pensavo veramente che lui lo volesse[122].

 

c) Domande scomode: sono fatte per mettere in difficoltà l’interlocutore, il quale si trova quasi nella situazione dell’interrogato che risponde alle accuse. È qui che si incalza il personaggio un quesito dopo l’altro: sono le domande più dure da digerire.

Oriana Fallaci a Henry Kissinger, L’Europeo, 1972:

Ma non trova che Schlesinger abbia ragione quando dice che la guerra  in Vietnam è riuscita solo a provare come mezzo milione di americani con tutta la tecnologia fossero incapaci di sconfiggere uomini male armati e vestiti di un pigiama nero?

Questo è un altro problema. Se è un problema che la guerra in Vietnam sia stata necessaria, una guerra giusta, piuttosto che… Giudizi del genere dipendono dalla posizione che uno assume quando il paese è già coinvolto nella guerra e non resta che da concepire il metodo per tirarlo fuori. Dopo tutto, ilo mio e il nostro ruolo è stato quello di ridurre sempre di più la misura in cui l’America era coinvolta nella guerra, per poi finire la guerra. In ultima analisi, la storia dirà chi ha fatto di più: se coloro che hanno lavorato criticando e basta o noi che abbiamo tentato di ridurre la guerra e poi l’abbiamo finita. Sì, il giudizio spetta ai posteri. Quando un paese è coinvolto in una guerra non basta dire: bisogna finirla. Bisogna finirla con criterio. E questo è ben diverso dal dire che entrare in quella guerra fu giusto.[123]

 

d)Domande generali: abitualmente poste all’inizio dell’intervista, sono ad ampio raggio e permettono una risposta articolata e completa.

Alain Elkann a Giorgio Bocca:

È cambiato il mestiere del giornalista?

La scrittura conta molto meno della parola. La tv è dominante. La gente non solo legge meno, ma più rapidamente. Mio zio, maresciallo di cavalleria, leggeva tutto ed era sempre in ritardo di due giorni. Il giovedì finiva il giornale del martedì. Oggi si leggono solo i titoli. Mi ha stupito che Ceronetti dicesse che i giornali non sono letti perché ci sono troppe cose. Io penso che ce ne sono meno di una volta. In Algeria ammazzano centinaia di persone alla volta e ancora non riusciamo a capire il perché[124].

 

e) Domande particolari: seguono quelle generali, vanno più in profondità e traggono informazioni più complete.

Anna La Rosa a Francesco Cossiga, Libero:

Come è nata la sua passione per i telefonini?

Come tutte le passioni: nessuno sa come sono nate.

È ancora radioamatore?

Certamente.

Il suo nome?

Italia numero zero fox 800[125].

 

f) Domande tematiche: chiedono all’ospite un’opinione su un argomento oppure riguardo un tema di attualità.

Anna La Rosa a Lamberto Dini, Libero:

Parliamo della bufera che ha travolto la Banca d’Italia. Lei che idea si è fatto?

Io spero che possa tornare la serenità nella Banca d’Italia e che la sua credibilità possa essere ristabilita dopo che è stata così scossa dalle Opa sulle nostre banche.[126]

 

g) Seconde domande: formulate in reazione  ad una risposta ottenuta, chiedono uno sforzo in più all’intervistato per ottenere un particolare in più che approfondisca e chiarisca la risposta data in precedenza.

Stefano Lorenzetto a Ezio Capizzano:

Oltre alle donne, che altre passioni ha nella vita?

La politica. Sono stato uno dei fondatori dell’Italia dei valori con Di Pietro. Poi l’ho abbandonato. Nel ’99 mi sono candidato con Prodi. Vedi qua cosa mi scrive, su carta intestata Romano Prodi? “Carissimo Ezio, ho ricevuto la tua cortese lettera e desidero ringraziarti di cuore per le tue osservazioni…” eccetera eccetera. Firmato: “Con tanta amicizia, Romano”.

Di quali osservazioni si trattava?

Ero suo consulente gratuito. Un mese prima era stato designato presidente della Commissione Europea. Senza i miei appunti l’avrebbero cacciato da Bruxelles al secondo giorno. Ma chi credi che abbia avviato la comunitarizzazione dei diritti, a cominciare da quello agrario? E il Codice di diritto europeo chi credi che l’abbia scritto?[127]

 

h)Domande personali: sono i quesiti sulla vita privata del personaggio, non mancano mai nelle interviste ritratto.

Sabelli Fioretti ad Anna Falchi:

Ha fatto qualche plastica?

Avevo il seno asimmetrico. Una tetta grande e una piccola. Anzi, una abbondante e l’altra non c’era proprio. Sono asimmetrica. Ho anche il viso storto[128].

 

i)Domande ironiche: sono fatte per intrattenere il lettore, per divertirlo. In altri casi sono usate per marcare le distanza dall’interlocutore attraverso un tono canzonatorio.

Lorenzetto al Divino Otelma, Il Giornale:

Lei s’è già reincarnato?

Sicuramente sì. In epoca augustea facevamo parte dei quindecemviri sacris faciundis, i quindici sacerdoti custodi dei Libri sibillini.

E prima?

Fummo sacerdote in Atlantide. E poi faraona.

Finì arrosto?

Molti ignorano che vi furono nell’antico Egitto faraoni femmina[129].

 

l)Domande riflessive: riguardano temi complessi e presentano solitamente un’introduzione dell’intervistatore.

Radio Vaticana a Papa Ratzinger, Agosto 2005:

La Chiesa poggia su una saggezza antica, e Lei si trova oggi a incontrare una gioventù che sicuramente ha tanto entusiasmo, ma in quanto a saggezza ha ancora molta strada da fare… Come è possibile costruire un ponte tra questa antica saggezza – compresa anche quella del Papa, che ha una certa età – e la gioventù?

Staremo a vedere quanto il Signore sarà disposto ad aiutarmi, in questa opera! Comunque, la saggezza non è quella cosa che ha un po’ il sapore di stantio – in tedesco, a questa parola si associa un po’ anche questo sapore! In questo senso, credo che parlare, credere e vivere partendo da qualcosa che è stato donato all’umanità e le ha acceso dei lumi, non sia una pappa pronta stantia, ma sia invece adeguato proprio alla dinamica della gioventù, che chiede cose grandi e totali. Ecco cos’è la saggezza della fede: non il fatto di riconoscere una gran quantità di dettagli, di riconoscere l’essenziale dalla vita, come essere persona, come costruire il futuro[130].

 

m) Domande aneddotiche, rievocano episodi del passato

Sabelli Fioretti a Vittorio Feltri:

Il più grande errore della tua vita?

Tratto gli editori peggio dei giornalisti.

Anche Berlusconi?

Paolo Berlusconi lo tenevo fuori dalla porta, e lo vedevo passeggiare aspettando che lo ricevessi. Non mi piace scodinzolare. A Zanussi ho detto: “Meno ti fai vedere nel mio ufficio, meglio è. Io ad Arcore non sono mai stato. Quando ci fu l’inciucio, feci il titolo: L’inciucio in diretta”.

Sai che si disse? Che facevate il gioco delle parti.

Una settimana prima del decreto salvaladri scrissi che sarebbe stata una stupidaggine devastante. Tant’è che si diceva “Feltri non dura”. Ma tu lo leggi oggi il Giornale? Perché nessuno lo critica oggi?[131]

 

3.4 Registratore e block notes

 

In un’intervista televisiva, intervistatore e intervistato sono sempre ripresi da una telecamera: ogni parola, smorfia, gesto e battito di ciglia dell’ospite vengono mandati in tempo reale oppure  montati e trasmessi in differita. La presenza delle telecamere dà la certezza che l’intervistato abbia effettivamente fatto quelle dichiarazioni. Nelle interviste scritte il giornalista si deve dotare forzatamente di qualche strumento che lo aiuti a memorizzare le dichiarazioni che ottiene durante il colloquio.

Sono gli attrezzi del mestiere dell’intervistatore: il registratore e il block notes. Grazie al primo, si fissano le parole dell’interlocutore per meglio riscriverle e per scongiurare ogni contestazione futura; con il secondo si prendono gli appunti essenziali della conversazione per gestire meglio le domande successive, e per indirizzare il colloquio verso un botta e risposta il più interessante possibile.

Alberto Papuzzi chiarisce l’importanza del registratore:

“L’uso del registratore è una garanzia per non perdere passaggi importanti e per controllarli al momento della stesura dell’intervista. Nel giornalismo americano è quasi un obbligo; inoltre consente di essere fedeli, se è il caso, al modo di esprimersi dell’intervistato”.[132] Si può paragonare ad una polizza di assicurazione: per ogni malinteso, incomprensione o contrasto il registratore è una prova inconfutabile.

Naturalmente obbliga il giornalista ad un lavoro lungo che è quello della sbobinatura. Mettiamo il caso che il colloquio sia lungo, gli elementi importanti siano pochi e si debba riscrivere il pezzo subito: in questo caso non c’è il tempo di ascoltarla tutta, si possono risentire alcuni passaggi delicati, ma gli appunti dovrebbero bastare per ricostruire il colloquio.

Stefano Lorenzetto illustra i motivi  per cui si usa il registratore:

“Innanzitutto consente di prendere appunti durante il colloquio, senza dover per forza scrivere tutto ciò che viene detto. Poi impedisce eventuali contestazioni: tutto quello che viene detto è registrato, e nei passi più sconvenienti o delicati io riporto tutto alla lettera così non ci possono essere contestazioni. Senza registratore non si potrebbe scrivere tutto e pensare alla domanda successiva da fare: il pensiero è sempre più veloce della mano. Infine è indispensabile verificare d’avere capito bene quando si parla di temi scientifici e filosofici: lo si può fare solo con il registratore”[133].

Inoltre bisogna assicurarsi che il registratore funzioni durante tutto il colloquio, per evitare spiacevoli inconvenienti. “Per evitare che l’apparecchio non funzioni- dice Enzo Magrì -  qualche giornalista se ne porta addirittura due. La ragione di questa solerzia è evidente. Si può telefonare all’intervistato per una integrazione dell’intervista oppure per un chiarimento quando si può. Ma telefonare per dire che quello che è stato detto è finito nell’aria è fare la figura dell’imbranato. Senza contare che anche rifacendo l’intervista questa non sarà mai come è stata raccolta la prima volta, genuina, estemporanea, sugosa.

Anch’io sono stato vittima del mancato funzionamento del registratore, anch’io sono stato tradito da un registratore. Era credo il 1973. Il Governo di allora aveva deciso di mandare al confino nell’isola di Limosa un folto gruppo di mafiosi. Tra questi c’era Angelo La Barbera, un potente boss che poi è stato assassinato in carcere. La Barbera era il più riservato di tutti ma dopo una settimana di mie ‘rispettose’ insistenze, forse per scacciare la noia del confino di polizia al quale era stato condannato dopo che aveva girato il mondo, mi concesse un’ intervista. Preparai le domande velocemente ma la maggior parte le ho dovuto improvvisare davanti a lui incalzando le sue interessanti risposte. Avevo un registratore di quelli di quei tempi: una macchina rettangolare alla quale si applicava il microfono. Mentre lui parlava e rispondeva ai miei quesiti fornendo risposte interessanti. io sbirciavo e controllavo se il registratore funzionava. Funzionava, ma in modo bieco, solo per farmi male, per punirmi, vile d’un registratore. Finita l’intervista mi preparai velocemente per prendere la nave,  la Vittore Carpaccio che dall’isola mi avrebbe portato in Sicilia. Se l’avessimo perduta avremmo dovuto aspettare una settimana visto che il tempo volgeva al brutto. Con me c’era il bravissimo fotografo Ferdinando Scianna. Salito a bordo della nave che ci avrebbe sbarcato ad Agrigento, ho aperto il registratore. Non c’era nulla. Solo silenzio e un lungo terribile fruscio. Non so come, ma la manopola del  volume del suono era a zero e di conseguenza l’apparecchio non aveva  registrato niente di ciò  (infanzia palermitana, viaggi all’estero per un totale di 3000 ore di volo,  ‘innocenti’ incontri con amici degli ‘amici’) che aveva raccontato il mafioso. Fu un una tragedia alla quale si accompagnò il mare forza otto che faceva andare su e giù la piccola nave. Fortuna che c’era Ferdinando Scianna. Quando uno intervista, un po’ perchè pensa alla domanda successiva, un po’ perché  è rapito da particolari  del racconto dell’intervistato, si pensa a molte cose o ci si prepara alla contestazione, a formulare un altro quesito. Insomma voglio dire che non si coglie appieno tutto quello che  l’altro dice. ‘Tanto’, si pensa, ‘è tutto registrato’.  Quella volta non c’era registrato nulla. Ma in quell’occasione Scianna aveva messo la stessa bravura con la quale ritrae il mondo anche nel registrare in mente il colloquio tra me e il mafioso anche per via dello straordinario interesse che  le parole del personaggio suscitavano in lui. Aveva insomma memorizzato gran parte delle risposte. Si, tutte le risposte Cosi con il suo aiuto, un po’ sulla nave, un po’ nel taxi che da Agrigento ci portava a Palermo, e un  altro po’ sull’aereo che dal capoluogo siciliano volava Milano, riuscii a ricostruire tutta l’intervista. Alla faccia di quel mascalzone e traditore registratore”[134].

Se si usa il registratore, si deve fare attenzione alle dichiarazioni off-record, ovvero quelle frasi che l’intervistato dice ma che non vuole vengano pubblicate. Sono dette quindi in via confidenziale al giornalista il quale si impegna a non pubblicarle. A volte si tratta di dichiarazioni scottanti, in altri casi sono informazioni riservate concesse soltanto per una sua maggiore conoscenza dei fatti. La lealtà del giornalista esige il rispetto dei patti e quindi la non pubblicazione di queste dichiarazioni. Anche se Claudio Sabelli Fioretti, interpellato su questo argomento, ci risponde così:

“Non si deve scrivere ciò che viene detto off-record. Ma io uso alcuni trucchetti perché alla fine l’intervistato rilegge. Per esempio scrivo: ‘Le dico una cosa ma non la deve scrivere. Me lo assicura?’. ‘Certo, ha la mia parola’. E poi scrivo tutto quello che mi ha detto. Se la cosa lo diverte, spesso, lascia tutto”[135].

L’uso del registratore è comunque una pratica assodata e diffusissima, però esistono anche le eccezioni. Il giornalista e autore televisivo Cesare Lanza, ad esempio, all’inizio della sua intervista alla soubrette Flavia Vento per Corriere Magazine scrive così:

Cara Flavia Vento, io sono un vecchio cronista affezionato ad abitudini un po’ antiquate. Le interviste, le faccio senza registratore. Prendo pochi appunti e in quarant’anni non ho mai avuto una smentita. “Bene”. Non vorrei cominciare con te, a dover incassare rettifiche[136].

 

Una confessione coraggiosa, visto che (quasi) tutti i giornalisti, quando vanno ad intervistare qualcuno, il registratore lo mettono sempre in valigia.

 

3.5 La rielaborazione

 

La maggior parte degli intervistatori (ma non tutti, come abbiamo appena visto), usa durante  i colloqui un registratore, in modo tale da non dover trascrivere tutto ciò che dice l’interlocutore perché le parole sono già memorizzate dall’apparecchio. Una volta terminata l’intervista, il lavoro è quello di riprenderla, sbobinarla, e organizzarla sulla carta. È un’operazione delicata e decisiva al pari della preparazione o della formulazione delle domande. Infatti, il giornalista deve sempre fare un lavoro di selezione del materiale, e riuscire a trasmettere con le parole tutti gli elementi caratterizzanti l’incontro (il tono, la distanza, le pause, la vivacità, il ritmo). Ovviamente non ci si deve limitare ad una pura trascrizione del linguaggio parlato sulla pagina bianca: il risultato sarebbe un brano illeggibile, pieno di pause, mugugni, mezze frasi, errori grammaticali e nella costruzione dei tempi.

“Uno parla come mangia, non come un libro stampato – spiega Stefano Lorenzetto - A me è capitato recentemente di rileggere sulla carta il mio parlato: ho concesso un’intervista alla fondazione di Don Benzi, e loro hanno sbobinato e trascritto tale e quale. Il risultato è illeggibile, perché quando parli vai a braccio, ti fermi, riprendi, e anche la consecutio temporum è diversa”[137].

Dunque, per forza di cose è necessario rielaborare. Ma come? Enzo Magrì prova a dare qualche indicazione utile:

“L’intervista risponde alle stesse regole di un articolo. Ha bisogna di un lead interessante che prenda per la manica il lettore e se lo trascini dietro senza dargli motivo di distrarsi” - ripete Magrì – “Per questo uno dei sistemi più utilizzati all’Europeo era quello di cominciare con tre domande secche in sequenza”[138]. Un’altra possibilità, molto gettonata, è quella di mettere all’inizio del pezzo le dichiarazioni più forti e importanti dell’intervista, che poi verranno approfondite nel pezzo. Vediamo un esempio concreto. Si tratta di un’intervista del vicedirettore del Corriere della Sera Dario Di Vico a Francesco Rutelli:

“Sul caso Fazio i Ds hanno maturato seppur con qualche ritardo una posizione più chiara e libera da condizionamenti, spero che accada lo stesso per la scalata Unipol alla Bnl”. Il leader della margherita Francesco Rutelli è stato tra i primi a sostenere come dietro alle manovre dei concertisti ci fosse la mano della destra, e accetta ora di commentare le novità delle ultime intercettazioni telefoniche[139].

 

Nelle interviste-ritratto, invece, i giornalisti migliori usano con abilità la penna per tratteggiare un quadro del personaggio che descriva l’uomo, la sua psicologia. Gli elementi importanti, in proposito, possono essere quelli di colore (i vestiti, l’arredamento della casa, i movimenti, lo sguardo), il suo stato d’animo, il suo approccio all’intervista.

Roberto Gervaso, ad esempio, è un maestro nel descrivere con poche pennellate iniziali il personaggio che ha di fronte: introduce sempre il lettore all’intervista con un lead accattivante e brillante. Vediamo come comincia il pezzo che riporta il suo colloquio con la scrittrice di romanzi rosa Liala:

“Alla soglia del secolo, Amalia Lyana Negretti Odescalchi è più viva e vegeta che mai.

Un sottile cammeo d’argento, una leggenda crepuscolare, una delicata statuina, che sembra uscita dalla penna di un antico miniaturista o di un poeta demodè.

Seduta su una vecchia poltrona, in un salotto squisito e silenzioso, nobilitato da ritratti d’antenati impassibili e arcigni, la regina del romanzo d’amore, che ha fatto sognare, piangere, fantasticare milioni di donne, rievoca piccoli e grandi fasti del passato.

È ormai fragile monumento di marmo rosa, come la cappella che ne custodirà le ceneri.

Nel suo tailleur blu, firmato Valentino, su una camicetta di seta bianca dal colletto alla coreana, ingentilito da valenciennes di candido pizzo, Liala, con un filo di voce, parla di sé e dei suoi amori. Parla e si accarezza le mani, affusolate e tatuate di efelidi, che ogni tanto sfiorano il volto perfetto, assorto, un po’ stanco.

Gli occhi, di una luminosità acquosa, fissano orizzonti lontani, attingendo a un fantastico scrigno di ricordi mai sopiti o sepolti”[140].

 

Un inizio così non sfigurerebbe in un romanzo d’autore: dopo queste prime righe così graziose viene spontaneo proseguire nella lettura e bersi l’intervista tutta in un sorso.

D’altro canto, il prologo dell’intervista serve anche  a introdurre l’argomento di cui si parla con un breve riassunto, e a dare l’ambientazione del colloquio. Seguendo possibilmente la lezione di Indro Montanelli: “Se mi prendo il lettore nelle prime righe, non mi molla più”. Questo avviene soprattutto se l’intervista riguarda temi di non immediata comprensione.

La scelta delle righe di apertura deriva sempre dall’accurato lavoro di selezione del materiale. La durata reale delle interviste infatti,  spesso raggiunge le tre o le quattro ore:  nel “taglia e cuci” capita la sequenza delle domande viene spesso scombinata. Non sempre nella riscrittura  coincide con l’ordine con cui si è svolta nel colloquio orale. “Se abbiamo seguito il filo temporale o anche quello logico relativo all’argomento” - spiega Magrì - “durante il colloquio si registrano comunque digressioni, divagazioni, elusioni, pause fatte dal personaggio. Oppure evocazioni, che naturalmente non devono essere buttate via, eliminate, bensì recuperate, collocate in altre parte del pezzo e sapientemente utilizzate dal giornalista.”[141] La fluidità e scorrevolezza dell’articolo prevale dunque sulla riproduzione letterale dell’incontro.

Quando si sbobina un’intervista, il problema principale è quello della  fedeltà del linguaggio. Abbiamo già sottolineato che non bisogna trascrivere integralmente tutte le parole effettivamente dette: Gian Antonio Stella sostiene che un’intervista scritta  deve, in certi casi, essere infedele rispetto al colloquio orale.

“L’intervista migliore non sempre è la più fedele. È obbligatorio tagliare, pulire, cambiare, cucire. Finché il prodotto finale, magari stravolto rispetto alla frase letterale, non riuscirà a raggiungere due obiettivi: permettere all’intervistato di riconoscersi e al lettore di capire. La verità è che una buona intervista, piaccia o non piaccia a certi vertici politici che non hanno mai letto Oscar Wilde (‘Il tedio è la senilità della serietà’) e pensano stupidamente che la loro statura politica si misuri in righe tipografiche e il loro peso culturale in ampollosità istituzionale, è solo quella che si fa leggere. Quindi delle due l’una: o sta in piedi da sola o va in qualche modo aiutata. Il che non vuol dire affatto inventare le cose. Né raccontare balle.

Vuol dire cucire pazientemente il tutto seguendo piccoli trucchi. Rompere le frasi troppo lunghe con una domanda secca. Troncare una risposta evasiva con una cosa qualsiasi tipo: ‘ma…’. Sottolineare la banalità con qualche ironia. Spezzare i ragionamenti volutamente complicati con una battuta che permetta, come si dice nel calcio, una ‘ripartenza’. Evitare come la peste ogni attimo di noia. Rifiutare ogni salamelecco cerimoniale tipo ‘on.’ Oppure ‘eccellenza’ o ancora ‘signor ministro’: è un’intervista, non una interpellanza  e se il lettore sente puzza di servilismo, addio.

In definitiva: libertà totale e quasi ‘anarchica’ nelle domande, fedeltà massima possibile nelle risposte. Senza appiccicare (mai e poi mai!) una parola non detta, ma anche senza l’incubo della trascrizione letterale. E ricordando sempre che per fare una buona intervista bisogna essere in due: chi le dà e chi la scrive. E che il capolavoro è quando uno ti dice ‘bravo’ e tu, rileggendola, non trovi una sola parola che sia stata riportata esattamente alla lettera”.[142]

 

Secondo Stella bisogna comporre un’intervista onesta, non sempre fedele, mai testuale.  Umberto Eco, in un articolo della sua rubrica sull’Espresso “La bustina di Minerva”, esprimeva la sua diffidenza verso le interviste scritte. Il titolo del suo articolo è eloquente: “Attenti alle interviste, sono sempre infedeli”. Eco fa l’esempio di una sua intervista-dialogo avvenuta due mesi prima con Jacqes Le Goff e due giornalisti: una volta pubblicata, il senso di ciò che aveva detto risultava modificato.

Leggendomi, ad un certo punto ho sentito qualcosa che suonava come falso. Il mio partner aveva parlato su un certo argomento, poi mi era stato chiesto che cosa ne pensassi io. La mia risposta inizia con “Sono più o meno d’accordo con Le Goff” e poi via a dire la mia. Da come la dicevo, emergeva che ero perfettamente d’accordo, salvo che aggiungevo qualche commento. Eppure le formule retoriche hanno il loro valore. Dopo “sono più o meno d’accordo..” ci si attende un “ma” e poi una netta affermazione del contrario. (…) Ridotta a poche righe apodittiche, quella forma dubitativa (si può essere apoditticamente dubitativo?), alludeva, lasciava intravedere una volontà polemica. Perché faccio questo esempio, in sé trascurabile? Perché ci dice quale sia la dinamica dell’intervista, per bene che sia condotta meglio, si lascia parlare l’intervistato, si tagliano i tempi morti, e si cerca di dare forma all’informe.

La forma, condizione di perfezione, rende il dialogo imperfetto, fatalmente infedele. Quando ho riletto l’intervista prima della pubblicazione avrei potuto tagliare quel “più o meno”, eppure non l’avevo fatto perché suonava bene, rendeva la mia entrata un pochino più lenta e prudente. Ma una volta stampato aveva cambiato segno. È l’eterno problema di quanto i media riescano a rappresentare la realtà[143].

 

È difficile trovare per il giornalista il giusto confine della rielaborazione legittima.

Quando l’interlocutore inframezza le sue dichiarazioni con espressioni pleonastiche, giri di parole, battute, un  intervento a posteriori  è obbligatorio per rendere scorrevole l’intervista.

Se dice ad esempio: “Massì, in fondo in fondo ritengo che potrebbe essere utile, per il bene del mio partito e di tutto ciò che rappresenta agli occhi dell’opinione pubblica, stipulare un’alleanza elettorale con le forze migliori del centro moderato”, si riporta, senza tante parole inutili, “Un’alleanza con il centro moderato sarebbe utile al mio partito”.

Indro Montanelli sosteneva che la dichiarazione non deve essere necessariamente vera, ma verosimile. In altre parole, non è necessario riportare qualcosa che è stato detto dal personaggio, ma qualcosa che gli assomiglia. L’interpretazione del cronista si deve fermare alla forma delle parole, senza investire il senso delle dichiarazioni: quest’ultimo non deve mai essere travisato, anche se basta pochissimo per modificarlo. Mario Furlan fa un esempio calzante: “Domandate a un politico se crede nella centralità del servizio televisivo pubblico (cioè della Rai). I politici tendono a non sbilanciarsi, quindi vi potrà rispondere così: ‘Credo che la Rai debba conservare una posizione di rilievo, ma le altre emittenti non devono venire penalizzate’. Se riporto la prima parte della frase – ‘Credo che la Rai debba conservare una posizione di rilievo’ – il politico fa la figura dello statalista nemico delle televisioni private; se riporto la seconda parte – ‘Le altre emittenti non devono venire penalizzate’ – sembra un paladino della Tv commerciale, un uomo di Berlusconi. Il risultato – fargli dire quello che volevo – è stato ottenuto senza modificare una virgola, ma semplicemente saltando qualche passo. E di fronte a una contestazione il giornalista potrà  replicare, sia pure con una bella faccia tosta, che ha riportato “le testuali parole”.[144]

D’altro canto, c’è tra i cronisti chi preferisce limitare al minimo possibile l’intervento giornalistico di “taglia e cuci”. Come Claudio Sabelli Fioretti: “Io non uso riscrivere l’intervista. Prendo lo sbobinato, che generalmente è di circa 140mila battute, e lo porto a 12mila buttate attraverso successivi passaggi durante i quali tolgo le ripetizioni e chiacchiere inutilizzabili. Alla fine l’intervistato si riconosce perché io non ho usato parole e costruzioni mie bensì quelle sue autentiche. Per fare questo è indispensabile registrare. Quando si prendono appunti è inevitabile tradire il pensiero dell’intervistato”[145].

Una sintesi apprezzabile è quella di Papuzzi: “Nell’intervista personale, può essere importante il modo di esprimersi dell’intervistato, come un aspetto della sua personalità: non si tratta di usare il cosiddetto parlato, cioè l’andirivieni delle singole parole – che ha uno scarso valore giornalistico e rappresenta piuttosto una coloritura letteraria – bensì di riprodurre la struttura linguistica che caratterizza il modo di parlare dell’intervistato. Le domande devono essere sintetiche, le risposte non troppo lunghe, o solo alcune lunghe. Se necessario possono essere interrotte con delle domande interlocutorie, inserite a posteriori. La forma dialogata deve avere un suo ritmo. Naturalmente ci sono stili diversi, da adattare alle esigenze del caso e del giornale.  Secondo gli intervistati e le circostanze, il tono del dialogo può essere colloquiale e amabile, asciutto e incisivo, incalzante e aggressivo”[146].

Queste considerazioni ci portano dritti ad un altro nodo: come riportare il linguaggio dell’intervistato? Non sempre gli interlocutori sanno esprimere i concetti in modo chiaro nelle risposte; in alcuni casi divagano, non centrano l’argomento, danno risposte dispersive. L’Italia, tra l’altro, risente di un alto tasso di analfabetismo: non è difficile trovare persone che fanno fatica ad esprimersi in un italiano di senso compiuto, oppure commettono svarioni grammaticali e nell’uso dei tempi verbali. In questi casi il giornalista deve cercare di rendere le risposte chiare e scorrevoli, modificandole il tanto che basta. Senza trasformare un agricoltore in Shakespeare, costruendo a posteriori uno stile troppo elevato, per nulla corrispondente alla realtà. “In linea di massima, conviene sempre cercare di far fare bella figura all’intervistato”, mette in guardia Stefano Lorenzetto.

Enzo Magrì riassume quest’ultimo punto così: “Generalmente il modo di esprimersi dell’intervistato è abbastanza appropriato, colto, il suo periodare è corretto, i concetti che espone sono chiari. Ma altrettanto frequentemente capita che il linguaggio sia zoppicante, le sue frasi smozzicate ed i concetti manifestati male. Allora è necessario intervenire per rendere, senza travisarne il pensiero, il linguaggio di buon tono, il periodare corretto, i concetti completi. Il tutto naturalmente per rendere un servizio al lettore il quale certamente si rifiuterebbe di leggere una cosa banale, mal scritta e volterebbe pagina. A volte, invece, per marcare il carattere dell’intervistato, per evidenziarne la personalità, i tic e le manie, basta mettere giù l’intervista così come è stata concessa. Usando il linguaggio dell’intervistato. Di questo tipo di intervista ne fece le spese per esempio Helenio Herrera. Intervistato dalla Fallaci, il grande allenatore dell’Inter parlava un italiano sottoposto alla grammatica spagnola con termini che non appartenevano né all’una né all’altra lingua bensì alla fantasia di quel celebre argentino. La Fallaci riportò integralmente il suo linguaggio maccheronico e spagnoleggiante: ne venne fuori un pezzo spassosissimo che diede inizio ad una serie”.[147]

Altri fattori da tenere in considerazioni sono le espressioni letterali, che conferiscono musicalità, hanno una loro forza intrinseca e vanno riportate precisamente e con le pause; il dialetto dell’interlocutore; l’iterazione di imprecazioni o refrain.

A questo riguardo, Stefano Lorenzetto nell’intervista con l’attore Remo Remotti ha sostituito le numerose parolacce dell’intervistato con un (bip). L’effetto risulta comico e azzeccato:

Giunto a 77 anni, mi ritengo una persona illuminata, saggia, equilibrata, che ama Dio e le donne. Ora non sono matto manco p’er (bip).

Anche se resta un maniaco sessuale,

Ma de sinistra, non come quella testa de (bip) di D’Annunzio, che era malato e alle donne je faceva male (…)

Quindi adesso che cos’è?

Da vent’anni prego e faccio meditazione. Seguo Gurdjieff, Osho, Rudolf Steiner, Sai Baba, che t’insegnano ad amare il prossimo e a stare in pace.

(Volge lo sguardo verso un televisore: è in onda il Tg1)

Guarda quelli. Ma chi so’? Islamici? Ma che (bip) stanno a fa’? Ma che (bip) è? Palestina?.

Afghanistan.

Senti, dimme ’na cosa: me trovi molto strano?[148]

 

3.6 Far rileggere l’intervista?

 

Gli intervistatori della carta stampata si differenziano anche dal loro comportamento una volta terminata la trascrizione del dialogo. Da una parte, ci sono quelli che fanno rileggere l’intervista all’interlocutore prima della pubblicazione. Al contrario, molti cronisti mandano l’articolo direttamente in stampa senza alcun controllo da parte dell’intervistato. Su questo punto vi sono due autorevoli scuole di pensiero, entrambe con delle buone ragioni. La differenza sta nella sensibilità del singolo giornalista: quella di far rileggere il pezzo è una scelta personale, e di solito non compromette la riuscita dell’intervista.

Alcuni sostengono che la possibilità di leggere l’intervista predisponga l’interlocutore ad una maggiore disponibilità e fiducia nel giornalista, ad una maggiore complicità e di conseguenza ad un intervista più riuscita.  Ovviamente le richieste dell’intervistato devono essere sensate, non devono stravolgere ciò che effettivamente è stato registrato.

La lealtà deve essere alla base dell’intervista - pensano invece altri giornalisti - e dunque l’intervistato deve avere fiducia nella professionalità del giornalista, il quale non deve sentirsi in dovere di fare un favore all’interlocutore e modificare il pezzo a seconda delle sue richieste e bizze.

Vediamo le argomentazioni delle due parti, partendo da Enzo Magrì: “Io sono fra quelli che non consigliano di far rileggere l’intervista, ma rispetto e capisco anche chi lo fa. Rivedendo quello che ha detto, l’intervistatore è tentato o di modificarne la stesura alla ricerca di un linguaggio più elevato di quello che ha usato oralmente oppure di addolcire certe prese di posizione eliminando espressioni e concetti che generalmente sono il sugo dell’intervista. La quale in questo modo diventa una sorta di bla bla bla.

Naturalmente la lealtà esige il rispetto dei patti intercorsi prima dell’inizio dell’intervista. Se si promette all’intervistato di fargli leggere l’intervista una volta che è stata sbobinata, organizzata, stesa e pronta per essere pubblicata, è giusto sottoporre il lavoro al suo giudizio. Io preferivo non farla leggere. Partivo dal principio (e lo manifestavo all’interessato qualora me lo chiedeva) che se uno ha fiducia in me nel darmi l’intervista deve continuare ad averla anche quando la stendo e la pubblico. Se nutrivo qualche dubbio sull’interpretazione di un passo, ovviamente era un dovere per me chiamare al telefono l’interessato e chiarire il passaggio in modo da non tradire il suo pensiero. Il politico poi richiede sempre di vedere scritto ciò che ha detto a voce. D’altra parte, se ciò che il personaggio dice è interessante probabilmente lo sarà anche dopo che egli avrà controllato il pezzo e tolto qualche eccesso”[149].

Anche Stefano Lorenzetto si inserisce nel gruppo dei giornalisti che non fanno rileggere le interviste.  “Non faccio mai leggere le interviste dopo averle fatte perché ho una polizza assicurativa, un asso nella manica: il registratore. Tutto quello che viene detto è registrato, e nei passi più sconvenienti o delicati io riporto tutto alla lettera così non ci possono essere contestazioni. Se si fa leggere l’intervista, il 99,9% degli intervistati, soprattutto se occupano qualche posto di potere, la vorrebbe cambiare. Anche perché nell’arco di quattro ore si dicono tante cose che poi non si ricordano, uno parla con grande libertà e dice anche cose deliranti. A rileggersi l’impatto è spesso micidiale, proprio perché lo scritto è diverso dal parlato.  Io non faccio rileggere mai, evitando che mi chiedano di rileggerla. Mi sembra ingiusto”[150].

L’unico punto d’accordo è l’opportunità di una rilettura nel caso di passaggi poco chiari o di insicurezze del giornalista nella trascrizione. Pensate ad un colloquio filosofico o su un  tema delicato di politica economica: in quel caso chiedere dei chiarimenti anche attraverso una rilettura è legittimo. Lo sostiene anche Umberto Eco, sempre nel suo articolo già citato riguardante un colloquio con Le Goffe e due giornalisti:

I due giornalisti avevano fatto un lavoro corretto: avevano registrato il dialogo e l’avevano trascritto con cura. Quindi, come si fa nei paesi civili, ce l’avevano inviato per il controllo. Quando un dialogo prende una o due ore, il giornalista è poi obbligato a tagliare, ridimensionare, eliminare le parentesi inutili e casuali, e l’intervistato deve controllare che, malgrado questa operazione cosmetica, il senso delle sue affermazioni sia rimasto più o meno invariato[151].

 

Chi però è contrario alla rilettura teme che un massiccio intervento dell’intervistatore comprometta la ricchezza dell’intervista. È comprensibile questa paura, se si parte dal presupposto che il cronista è un professionista e che il suo lavoro è quello di intervistare: se una persona concede l’intervista poi perché si dovrebbe tirare indietro poco prima della pubblicazione? Senza contare le discussioni che potrebbero nascere sui concetti, le frasi, le singole parole che magari un politico vorrebbe cambiare e il giornalista vorrebbe tenere…

Claudio Sabelli Fioretti rivendica la scelta di far rileggere sempre l’intervista. Nel suo libro Voltagabbana, lo spiega nel capitoletto dedicato al suo colloquio con il politico Teodoro Buontempo:

Sulla signorilità di Buontempo vorrei soffermarmi ancora un poco. Alla fine dell’intervista io lo avvertirò che gli manderò il testo perché possa dargli un’occhiata. È un abitudine che ho. So che molti colleghi la considerano una pessima abitudine. Io invece sono convinto del contrario. A mio giudizio un intervistato ha diritto di controllare le sue parole. Posso sbagliare qualcosa, posso aver capito male, può ripensarci. Non è un favore che gli faccio. È un’opportunità che mi prendo. L’intervistato, sapendo che rilegge l’intervista, è più sciolto, ha fiducia, dice di più, anche in presenza di un registratore. E quando rilegge l’intervista fa pochissimi aggiustamenti. Generalmente. Ci sono stati casi in cui di questa “cortesia” qualcuno ha abusato. I giornalisti, spesso, quando vengono intervistati, si mettono a fare i pignolini. Cambiano le virgole, gli avverbi, gli aggettivi. Qualcuno si è anche arrabbiato, non riconoscendosi in quello che io ho scritto. Con un’attrice, Ida Di Benedetto, è stata una rissa. Ma alla fine ha vinto io. È stata una bella battaglia anche con Paolo Cirino Pomicino. Una sola volta ho perso. Con una collega, Antonella Boralevi. Alla fine l’intervista non è uscita. Ho sbagliato, non avrei dovuto cedere. Ma mi aveva stremato,. Dall’altra parte c’è anche chi, letta l’intervista, ti telefona e ti dice: “Stupenda. Non credevo che potessi riassumere così bene tre ore du conversazione. Ombretta Colli non ha voluto cambiare una virgola. Il caro amico Filippo Ceccarelli mi ha telefonato: “Come potrei cambiare qualcosa? È pura poesia”.

Ma Teodoro Buontempo li supera tutti. Mi dirà: “Io non voglio leggere l’intervista prima”. Ma è un piacere che le chiedo. “È un piacere che non le faccio. Leggerò l’intervista come tutti, comprando Sette dal giornalaio”[152].

 

Alla richiesta diretta di motivare ulteriormente questa scelta, Sabelli Fioretti risponde così:

 Mi interessa sapere come mai lei è così convinto che si debba far rileggere l'intervista dopo che la si è scritta. Per molti invece non si dovrebbe mai far rileggere.

Sono giuste tutte e due le posizioni. Io preferisco far leggere l'intervista perché le mie interviste durano anche quattro ore. E' giusto quindi che l'intervistato veda come è stato effettuato il lavoro di sintesi.

 Accetta sempre le correzioni?

Questa è la fase "polemica". L'intervistato chiede e propone delle correzioni. Io insisto, ma solo se ne vale la pena. L'ultima parola comunque non è la mia. Io riconosco all'intervistato il diritto di cambiare fino alla fine.

Il rapporto tra intervistatore e intervistato è sempre di parità? Oppure visto che ha sempre a che fare con i potenti rischia di subire il ruolo di chi ha di fronte?

No, anzi spesso l'intervistato ha soggezione proprio perché non sa che fine faranno le sue idee. Promettergli la rilettura lo tranquillizza e lo dispone a maggiore sincerità. Alla fine i cambiamenti che chiede, nella maggioranza dei casi, sono minimi.

(…) Nel caso di Ruggero Guarini però è riuscito a pubblicare una pseudo-intervista anche se lui  l'aveva diffidata dal farlo...

Guarini si è comportato in maniera arrogante. Pretendeva non di correggere alcune cose ma di bloccare l'intervista nonostante riconoscesse che non conteneva cose false o inventate. Diceva che era "mutila e tendenziosa" Ma tutte le interviste lo sono perché tagliare bisogna e alla fine rispecchiano la visione dell'intervistatore anche se non corrisponde a quella dell'intervistato[153].

 

La rilettura allunga i tempi di produzione dell’intervista, visto che la fase “polemica” – come l’ha chiamata l’intervistatore dei voltagabbana – può esasperare il giornalista e l’intervistato in duello all’ultima sfumatura. Inoltre si può incorrere nella diffida alla pubblicazione se l’intervistato è scontento, come è capitato nel colloquio di Claudio Sabelli Fioretti con Ruggero Guarini. Se non ci fosse stata la rilettura il pezzo sarebbe uscito integralmente. D’altro canto, molte interviste si riescono ad ottenere grazie alla promessa di una rilettura.

Il problema non ha una soluzione unica e valida per tutte le interviste: le due posizioni sono rispettabili, e hanno sia vantaggi che svantaggi.

L’opinione di Beppe Severgnini, si può considerare una buona sintesi: “Claudio Sabelli Fioretti su Corriere Magazine fa interviste lunghe anche quattro ore, poi seleziona le risposte, le scrive e le sottopone all’intervistato dandogli la possibilità di leggere l’intervista prima che venga pubblicata. Lo fa perché pensa che il rapporto di fiducia non venga condizionato. Altri, invece, come Gian Antonio Stella non fanno mai rileggere l’intervista dicendo: “Beh, io sono un professionista, so fare bene il mio mestiere, quindi non c’è alcun bisogno di farla leggere prima che vada in edicola”. Non c’è un metodo giusto o sbagliato, sono semplicemente due tecniche diverse. Personalmente non sono contrario a far leggere l’intervista, anche perché mi è capitato molte volte da intervistato di leggere delle cose che non avevo mai detto o soprattutto frasi contorte in un italiano aulico, con paroloni che non avevo mai usato. Magari il giornalista pensa di farmi piacere, poi viene fuori l’intervista e leggendola mi viene da dire “Alt, ma io non parlo così!”[154].

 

3.7 Cosa rischia il giornalista

 

La trattazione dei casi di diffamazione a mezzo stampa nelle interviste riveste un’importanza capitale per i giornalisti. Come in altri ambiti del diritto dell’informazione, l’intervista giornalistica deve bilanciare due interessi ugualmente meritevoli di tutela: da una parte, quello dei singoli e della collettività ad essere informati correttamente; dall’altra quello dei protagonisti delle notizie a non vedersi lesi nella loro sfera di riservatezza. Nella storia recente del giornalismo italiano, le sentenze e i riferimenti giurisprudenziali riguardo a questo tema hanno oscillato tra la difesa a oltranza del diritto di cronaca e la affermazione intransigente della tutela della reputazione individuale, senza un vero e proprio indirizzo comune. Il nodo principale della questione riguarda la responsabilità del giornalista  in merito a dichiarazioni dell’interlocutore fortemente critiche oppure offensive nei confronti di terzi. In altre parole, se nelle risposte dell’intervistato vi sono frasi che diffamano la reputazione di qualcuno, il cronista deve riportarle in modo asettico senza correzioni oppure deve evitare di pubblicarle se non ne accerta prima l’attendibilità?

Istintivamente, si potrebbe pensare che debba prevalere il diritto di cronaca su qualunque altra esigenza, fatte salve le regole del turpiloquio: proprio perché formulate dall’intervistato, le dichiarazioni dovrebbero mettere al riparo il cronista dai fulmini della legge.

In realtà negli ultimi decenni vi sono molti pronunciamenti di segno contrario che inchiodano il cronista a un ruolo di censore attento delle dichiarazioni raccolte, e lo ritengono complice della diffamazione quando si verificano delle affermazioni diffamatorie nelle interviste.

A partire dalla sentenza n. 480 del 19 Gennaio 1984 della V sezione della Cassazione Penale, si ritiene il giornalista colpevole di concorso al reato di diffamazione  addebitabile all’intervistato, in quanto egli funge da “cassa di risonanza” delle opinioni altrui.

Il motivo consiste nel fatto che l’intervistatore è un veicolo tipico di diffusione della diffamazione, e a nulla serve che non sia d’accordo con le opinioni manifestate dall’intervistato.

Questa linea dottrinale è confermata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 5 Febbraio 1986, dove leggiamo: “Il giornalista che abbia causato la pubblicazione di un’intervista, contenente dichiarazioni ritenute offensive dell’altrui reputazione, concorre al reato di diffamazione a mezzo stampa poiché mediante il suo intervento si è resa di pubblico dominio la denigrazione della personalità morale dell’offeso”. Anche la Corte d’Appello di Milano, il 17 Novembre 1989, dichiara che “nel pubblicare un’intervista non è esente da responsabilità civile il giornalista che si limita a riportare fedelmente le dichiarazioni dell’intervistato quando questi riferisce notizie di interesse pubblico; il giornalista non può prescindere, come di fronte ad ogni altra notizia che apprende e che si appresta a pubblicare, dal controllare: a) l’attendibilità della persona intervistata; b) il contenuto delle dichiarazioni rese onde verificarne la corrispondenza al vero”[155].

Non mancano comunque pareri e sentenze di segno contrario, ovvero a difesa del diritto di cronaca e a garanzia dell’intervistatore.  Il tribunale di Padova, il 4 Novembre 1987, giudica “non punibili, per aver esercitato il diritto di cronaca, i giornalisti che, pur pubblicando notizie lesive della reputazione di un esponente politico, espongono la notizia in forma misurata e contenuta dopo ricerche e verifiche, e soprattutto consentendo allo stesso esponente politico di esporre in stretta successione cronologica, in una intervista, le proprie opinioni volendo così riparare e rimediare il guasto lamentato”.[156] Nel1991, il tribunale di Roma precisa poi che “la pubblicazione di una intervista contenente notizie diffamatorie, può diversamente ritenersi lecita allorché soccorrono gli estremi della verità dell’informazione, sotto il duplice profilo della fedele riproduzione del pensiero dell’intervistato e della verità della notizia dallo stesso riferita, dell’interesse pubblico alla conoscenza e della correttezza delle espressioni usate”.[157] La verità dell’informazione (o meglio la sua approfondita e professionalmente corretta verifica su più fonti autonome), l’interesse pubblico all’informazione e la correttezza espositiva nel rispetto della dignità umana sono i cardini dello ius narrandi: dovrebbero chiarire cosa è pubblicabile e cosa no, pur essendo a volte vittime di interpretazioni soggettive.

A questo punto del nostro percorso, è importante citare anche la sentenza della Cassazione del 17 febbraio 1995, che configura per le interviste diffamatorie “l’esimente putativa del diritto di cronaca nei confronti del giornalista, tutte le volte in cui la notizia è costituita non solo dalle dichiarazioni dell’intervistato, quanto dalla qualità di questi, idonea a creare affidamento sulla veridicità delle sue affermazioni, sì che l’eventuale omessa pubblicazione dell’intervista si risolverebbe in una forma di censura”.

In altre parole, se l’intervistato è una persona con una carica pubblica particolarmente importante, oppure un personaggio noto e influente per l’opinione pubblica, il giornalista fa bene a pubblicare le sue dichiarazioni perché è già una notizia il fatto che le parole vengano proprio da quel personaggio. Per esempio, se il presidente del Consiglio in una intervista diffama un leader avversario, il giornalista non è colpevole perché l’intervistato ricopre una carica pubblica importante, e pertanto riportare le sue opinioni – anche se false o diffamatorie – rientra nel diritto di cronaca. È la chiave per risolvere i due diritti contrapposti.

Tornando però ai due orientamenti espressi dalla giurisprudenza, vi sono due sentenze opposte che hanno fatto scalpore e hanno investito giornalisti di primo piano e due testate nazionali.

Nel Giugno del 1995, il giornalista Antonio Padellaro intervista per L’Espresso il collega Giuliano Ferrara sul delicato tema della custodia cautelare. Ferrara, all’interno dell’intervista, pronuncia le seguenti parole: “Sto cercando di dire che l’avvitamento antigarantista della magistratura italiana sino agli eccessi deliranti di Cordova non sarebbe spiegabile”. In seguito alla querela sporta dal procuratore della Repubblica di Napoli Agostino Cordova, Giuliano Ferrara, Antonio Padellaro e il direttore responsabile del periodico Claudio Rinaldi sono stati processati per diffamazione. Quattro anni dopo, la sentenza della Corte di Cassazione n.2283 del 25 Gennaio 1999 (passata alla storia come “sentenza Ferrara”) condanna oltre a Ferrara anche Padellaro e Rinaldi perché si sono resi responsabili di concorso nel reato di diffamazione. La motivazione è basata  sulla sentenza già citata del 1986, dove si dice che “la scriminante dell’esercizio di cronaca non è invocabile quando le affermazioni dell’intervistato sono palesemente false o, comunque, il giornalista non le abbia opportunamente controllate”[158]. Di nuovo qui si aggiunge che la scriminante non esiste “quando l’intervistato esprima valutazioni critiche gratuitamente offensive, perché in questo caso l’illiceità delle dichiarazioni riferite è immediatamente rilevabile dal giornalista, senza neppure l’esigenza di indagini intese a verificarne la corrispondenza ai fatti”. Dunque Padellaro avrebbe dovuto eliminare dalla rielaborazione scritta dell’intervista la frase contenente gli “eccessi deliranti” perché l’accusa risultava chiaramente diffamatoria. Secondo questi giudici quindi l’obbligo della verità non riguarda solo il fatto stesso della dichiarazione (bisogna riportare quello che effettivamente ha detto l’intervistato), ma si estende al contenuto della dichiarazione medesima (quello che dice l’intervistato deve essere vero).

Poco tempo dopo si registra una sentenza di segno opposto. Infatti la Corte di Cassazione nell’Agosto 2000, ha assolto Eugenio Scalfari e la sua redattrice Alessandra Longo (precedentemente condannati in primo e secondo grado) dal reato di diffamazione per le dichiarazioni offensive della scrittrice Lidia Ravera nei confronti di Irene Pivetti, allora Presidente della camera. Nell’intervista apparsa su Repubblica il 23 Aprile del 1994 la Ravera, riferendosi alla Pivetti, dichiarava: “Al di là e prima di ogni considerazione dico che questa donna è stupida. E come si fa a commentare seriamente le opinioni di un’oca. (…) Quando si facevano le lotte femministe lei aveva il grembiulino dell’asilo. È proprio vero: gratta un integralista e trovi un cretino (…). Non possiamo aspettarci nulla da queste signore di destra, non sono altro che delle scimmiotte funzionali alla cultura maschile”. La Suprema Corte ha riconosciuto l’esimente del diritto di cronaca per i tre famosi requisiti (verità, continenza formale, interesse pubblico) e ha rammentato che “se il fatto coinvolge personaggi pubblici, esso riveste un interesse indubbio per l’opinione pubblica e pertanto, la diffusione dell’intervista risponde perfettamente alla funzione informativa della stampa e soddisfa correttamente l’esigenza di approfondire la conoscenza di soggetti agli apici della vita politica, culturale o economica del paese”[159].

Dunque se in un’intervista si chiama in causa un personaggio politico di spicco, prevale l’interesse pubblico e il giornalista non è perseguibile.

A risolvere l’inconciliabilità delle due interpretazioni opposte riguardanti la diffamazione  nell’intervista giornalistica, ci ha pensato la sentenza  della Corte di Cassazione n.37140 dell’Ottobre 2001. Essa chiarisce definitivamente la portata dell’esimente da intervista dirimendo il contrasto tra la linea morbida e la linea dura. Ecco alcuni passi salienti della Sentenza:

“L’aver riportato alla lettera nel testo dell’intervista le dichiarazioni del soggetto intervistato, qualora esse abbiano oggettivamente contenuto ingiurioso o diffamatorio, non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca. Il giornalista può essere scriminato se il fatto in sé presenti profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo. In tal caso, il giornalista potrà essere scriminato anche se riporterà espressioni offensive pronunciate dall’intervistato all’indirizzo di altri, quando per le rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai soggetti coinvolti o per la loro indiscussa notorietà, l’intervista assuma carattere di un evento di pubblico interesse (…) La dichiarazione di un capo di stato, di un leader politico o sindacale, di uno scienziato di indubbia fama, ad esempio, devono ritenersi meritevoli di essere integralmente pubblicate, indipendentemente dalla veridicità dei fatti narrati o dalla intrinseca offensività delle espressioni usate. (…) Sussiste una scala di valori, in relazione alla notorietà del personaggio, che non può essere trascurata. (…) Il problema che sorge spontaneo è costituito dalla qualificazione da dare al personaggio che rilascia l’intervista, al fine di accertare se effettivamente si tratti di un personaggio noto e affidabile, le cui dichiarazioni siano comunque meritevoli di essere pubblicate”[160].

 

Com’era prevedibile, la sentenza ha provocato reazioni discordanti tra gli esperti. Per Emanuele Lucchini Guastalla, ad esempio, si tratta dell’“unica via d’uscita possibile per consentire un libero diritto di cronaca; per Corso Bovio invece “si poteva fare di più, al cronista è riconosciuta una zona franca ampia, ma non assoluta”.

Sicuramente i giudici con questa decisione hanno preso atto sia dei due orientamenti emersi dalle precedenti sentenze, sia del diverso carattere che un’intervista può assumere e hanno trovato una linea di compromesso che possa far convivere il più possibile due diritti così importanti come la tutela della dignità  e il  diritto di cronaca. Nel dibattito è intervenuto anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, il quale sottolinea l’obbligo della professionalità per l’intervistatore che non vuole trovarsi invischiato in querele e accuse di diffamazione:

“Un personaggio pubblico può anche fornire una ‘notizia del diavolo’ riferita all’ufficio che ricopre. È evidente in tal caso l’innocenza del cronista, ingannato dall’uomo pubblico, che risponderà da solo delle sue irresponsabili affermazioni. Il giornalista, per salvaguardare la sua dignità di professionista e il suo ruolo di mediatore intellettuale, non può e non deve trasformarsi in una “cassa di risonanza” (= propagandista) di tesi diffamatorie di parte o in una “buca delle lettere” (= impiegato di redazione) nella quale gli intervistati rovescino affermazioni palesemente false oppure valutazioni critiche gratuitamente offensive immediatamente rilevabili. Giornalista o propagandista. Questo è il dilemma. Senza mai dimenticare che il decoro e la dignità professionali sono compromessi solo quando il giornalista viene meno alla libertà di informazione e di critica”[161].

 

CAPITOLO 4

 

L’INTERVISTA ATTRAVERSO QUATTRO AUTORI

 

4.1 Oriana Fallaci

 

Cenni biografici

Oriana Fallaci è nata nel 1929 a Firenze. Comincia la sua carriera giornalistica a L’Europeo, per poi collaborare anche con altre testate sia in Europa che nel Sud America. Inviata di guerra e grande intervistatrice, ha scritto libri di successo come Lettera a un bambino mai nato, Un uomo, Insciallah, Se il sole muore, Penelope alla guerra. Dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001 ha scritto La rabbia e l’orgoglio, seguito due anni dopo da La forza della ragione.

 

Lo stile

“Questo libro non vuol essere qualcosa in più di ciò che è: una testimonianza diretta su diciotto personaggi politici della storia contemporanea. Non vuole promettere nulla di ciò che promette: un documento a cavallo tra il giornalismo e la storia. Però non vuole presentarsi nemmeno come una semplice raccolta di interviste per gli studiosi del potere e dell’antipotere. Io non mi sento un freddo registratore di quel che ascolto e che vedo. Su ogni esperienza professionale lascio brandelli d’anima, a quel che ascolto e che vedo partecipo come se la cosa mi riguardasse personalmente o dovessi prendere posizione (infatti la prendo, sempre, in base a una precisa scelta morale), e dai diciotto personaggi non mi recai col distacco dell’anatomista  o del cronista imperturbabile. Mi recai oppressa da mille rabbie, mille interrogativi che prima di investire loro investivano me stessa, e con la speranza di comprendere in che modo, stando al potere o avversandolo, essi determinano il nostro destino”.[162]

 

L’incipit di Intervista con la storia, la raccolta delle interviste con i potenti della terra pubblicata nel 1974, è un manifesto fedele dell’approccio di Oriana Fallaci alla tecnica dell’intervista. Troviamo, infatti, il desiderio di varcare i confini del giornalismo ed entrare nelle pieghe della storia contemporanea interrogandone i  suoi protagonisti. Per farlo, l’intervistatore non può secondo la Fallaci vestire i panni di  un giudice  imparziale che raccoglie acriticamente le dichiarazioni dei testimoni; né si può limitare a reggere il microfono e ascoltare passivamente le ragioni degli interlocutori. Al contrario, Oriana Fallaci affronta l’intervistato con la certezza che solo penetrandone la psicologia, mettendone a nudo le debolezze, analizzandone i dati biografici e tratteggiandone il carattere si può capire come il potente decida il destino del proprio popolo. Dialogando con presidenti, capi di stato, terroristi, generali o guerriglieri, la giornalista toscana non dimentica che anch’essa fa parte della storia. Oriana Fallaci non rinuncia alla sua cultura, alle proprie convinzioni, alle proprie opinioni sulle scelte di chi ha di fronte, ai propri dubbi e anzi li ripropone con più forza prima di confrontarli con le scelte degli interlocutori. Così facendo viene rivoluzionato il ruolo classico  dell’intervistatore: non è più un mediatore tra i lettori e l’opinione dell’intervistato, bensì diventa il protagonista in prima persona di un confronto tra due anime. La giornalista è padrone di una soggettività che si nasconde né si sacrifica sull’altare dell’imparzialità: a costo di lasciare “brandelli d’anima” in ogni colloquio, la Fallaci non molla la presa finché non avvicina la verità e svela l’interiorità dei suoi interlocutori. Senza cautele, senza timidezze, non rinunciando mai alla sua umanità, li denuda  fino a mostrarli per quello che sono e non per quello che dicono di essere.

I ritratti della Fallaci si riconoscono innanzitutto per la loro lunghezza sterminata. È una caratteristica tipica del suo stile di giornalista e di scrittrice; ancora oggi quando interviene sui giornali, i suoi pezzi occupano intere pagine. Sul settimanale L’Europeo le interviste pubblicate negli anni ’70 occupavano, con le fotografie del personaggio, tra le otto e le dieci pagine. Per interrogare gli interlocutori in profondità e trarne articoli non estemporanei, i colloqui dovevano avere una durata considerevole, cosa non semplice se consideriamo la statura e i mille impegni dei personaggi avvicinati[163].

Il numero di domande arriva anche a cinquanta per intervista, le risposte sono complete, sempre argomentate e mai telegrafiche. Generalmente le interviste della Fallaci si aprono con la descrizione fisica dell’interlocutore, del luogo del colloquio, e di alcuni elementi utili a mettere in guardia il lettore sul personaggio o a smontare alcuni luoghi comuni su di lui.

Lo stile è lo stesso dei grandi romanzi della Fallaci: una scrittura soggettiva, vivace, appassionante, composta di frasi brevi, con un linguaggio ricco, un ritmo sostenuto che non annoia il lettore, descrizioni dettagliate e metafore azzeccate.

Riportiamo come esempio l’inizio dell’intervista con il leader palestinese Yasser Arafat:

“Quando arrivò, puntualissimo, rimasi un attimo incerta a dirmi che no, non poteva essere lui. Sembrava troppo giovane, troppo innocuo. Almeno al primo sguardo, non avvertivi niente in lui che denunciasse autorità, o quel fluido misterioso che emana sempre da un capo  investendoti come un profumo o uno schiaffo. Di impressionante non aveva che i baffi, folti e identici ai baffi che ciascun arabo porta, e il fucile mitragliatore che teneva in spalla con la disinvoltura di chi non se ne stacca mai. Certo, lo amava tanto, quel fucile, da averlo fasciato all’impugnatura con nastro adesivo color verde ramarro: divertente e grazioso. Di statura era piccolo, un metro e sessanta, direi. E anche le mani erano piccole, anche i piedi. Troppo, pensavi, per sostenere due gambe così grasse e un tronco così massiccio, dai fianchi immensi e il ventre gonfio di obesità. Su tutto ciò si rizzava una testaccia minuscola, col volto incorniciato dal kassiah, e solo osservando quel volto ti convincevi che sì: era lui Yasser Arafat, il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, l’uomo di cui si parlava tanto, fino alla noia”[164].

 

In queste interviste, le domande sono sempre dirette e vanno al cuore dei problemi: non troviamo mai perifrasi, giri di parole, termini burocratici tipici dei colloqui politici. I quesiti sono accompagnati sempre da argomentazioni o da alcuni dati a supporto della propria tesi. Il tono veemente e immediato costringe l’interlocutore ad aprirsi e a dover sempre giustificare le proprie risposte. In caso di tematiche complesse, la Fallaci tende a semplificare senza banalizzare, per far si che tutti i lettori possano comprendere e farsi un giudizio. Per marcare le distanze con l’interlocutore, Oriana Fallaci dà sempre del lei all’intervistato, accompagnato sempre dalla carica che ricopre o da una denominazione: “Signora Gandhi” per Indira gandhi, Dottor Kissinger, Senatore Nenni, “Maestà” per Rehza Palavi, “Signor presidente” per Alì Butto.

L’andamento ricorrente è quello di una domanda generale, alla quale si succedono poi domande sempre più precise sull’argomento fino ad arrivare al nocciolo della questione. Per ogni risposta, la giornalista dice la sua o fa trasparire il suo pensiero opposto o coincidente a quello dell’interlocutore. La Fallaci tende a usare la prima persona singolare nelle domande più scomode o impertinenti e la prima persona plurale quando si fa portatrice davanti la potere delle istanze dei lettori.

Ad esempio, quando incontrò la presidente indiana Indira Gandhi, la successione delle domande sulla guerra al Pakistan fu la seguente:

Incomincerò dalla domande più brutale. Lei ha vinto, stravinto una guerra. Però non siamo in pochi a considerare questa vittoria come una vittoria pericolosa. Crede davvero che il Bangla Desh sia l’alleato che sperava? Non teme che possa rivelarsi invece un peso assai scomodo?

Senta, la vita è sempre piena di pericoli e io non credo che i pericoli si debbano evitare. Io credo che si debba fare quel che ci sembra giusto. E se quel che ci sembra giusto comporta un pericolo…. Bene:  bisogna rischiare il pericolo. È sempre stata la mia filosofia: alle conseguenze di un gesto necessario io non ho mai pensato. Le conseguenze io le esamino dopo, quando arriva la situazione nuova e allora affronto la situazione nuova. (…) Voglio affermare che ci sarà amicizia tra noi e il Bangla Desh. E no amicizia da una parte sola, ovvio. Se offriamo qualcosa al Bangla Desh, è evidente che il angla Desh offre qualcosa a noi. E perché il Bangla Desh non dovrebbe essere in grado di mantenere le promesse fatte? Economicamente è pieno di risorse e può rimettersi in piedi. Politicamente mi sembra allenato da gente allenata. I profughi stanno tornando a casa…

Ci stanno tornando davvero?

Sì, due milioni sono già rientrati.

Due milioni su dieci. Non sono molti.

No, ma dia tempo. Tornano in fretta. Abbastanza in fretta. Io sono soddisfatta. Più di quanto mi attendessi.

Signora Gandhi, alludendo ai pericoli della sua vittoria io non mi riferivo soltanto al angla Desh. Mi riferivo anche al Bengala occidentale, che è India, e che rumoreggia per la sua indipendenza. Io li ho uditi i nassaliti a Calcutta… E v’è una frase di Lenin che dice: “La rivoluzione mondiale passerà da Shangai e da Calcutta”.

No. Non è possibile. E sa perché? Perché in India sta già avvenendo una rivoluzione. Le cose stanno cambiando, qui: pacificamente e democraticamente. Il pericolo del comunismo non esiste. Esisterebbe se ci fosse un governo di destra, anziché il mio (…). No, non mi aspetto dispiaceri.

Qualche dispiacere, nel Bangla Desh, gliel’hanno già dato. Io ho visto linciaggi paurosi a Dacca, dopo la liberazione.

Sono avvenuti nei primi cinque giorni e sono stati pochi in confronto ai massacri che gli altri hanno fatto, in confronto al milione di creature che gli altri hanno ucciso. S’è trattato di episodi disgraziati, è vero, e noi abbiamo cercato di impedirli. Sapesse quanta gente abbiamo salvato! Ma non potevamo essere ovunque, non potevamo vedere tutto, ed era inevitabile che qualcosa ci sfuggisse. In tutte le comunità si trovano gruppi che si comportano male. Però anche quelli bisogna capirli. Erano così arrabbiati, accecati dal risentimento. Per essere giusti, non si deve considerare ciò che lei ha visto in pochi giorni ma ciò che loro hanno visto e sofferto in molti mesi.[165]

 

L’esperienza di inviata di guerra dentro la barbarie dei conflitti, in paesi come il Vietnam, l’India, il Pakistan, l’Iran e  Israele – solo per citarne alcuni – permette alla Fallaci di porre le proprie domande con la forza del suo vissuto personale. Quindi capita spesso che rafforzi le domande con affermazioni del tipo: “Io ho visto i linciaggi paurosi a Dacca..”, “Noi qui a Saigon si diceva…”, “Qui a Teheran le gente si chiude in un silenzio impaurito..”[166]. Questo le permette di acquistare credibilità e di ridurre al minimo la soggezione di fronte ai potenti. La grande  preparazione della Fallaci, associata al suo carattere combattivo e indomabile, l’hanno resa un osso duro per tutti, presidenti e guerriglieri, sacerdoti e senatori.

Nelle sue interviste possiamo individuare due versanti di discussione, spesso intrecciati fra loro: quello storico e quello personale. Da una parte molte domande storiche indagano i temi contemporanei più scottanti: le guerre in corso, la povertà, i regimi, i negoziati di pace. Dall’altra si scava la biografia del personaggio, la sua infanzia, le sue origini, la ascesa al potere, il carattere, la religione, l’umanità. Con la Fallaci ogni intervistato deve affrontare un colloquio a tutto campo: il cancelliere tedesco Willy Brandt parla del Muro di Berlino ma anche della sua infanzia in Norvegia, il segretario di stato americano Henry Kissinger discute della pace in Vietnam e subito dopo del suo insegnamento da giovane all’università di Harvard.

Per quanto riguarda il valore storico delle interviste, la Fallaci riesce a far emergere un’idea sui significati complessivi di ogni  vicenda affrontata: il lettore viene messo a contatto, direttamente, con le tesi in gioco e confronta tutti i punti di vista (dell’autrice e del personaggio). Il risultato è una contestualizzazione dei fatti senza un’acquisizione passiva di conclusioni a cui altri sono giunti (come nei saggi o nei libri storici). 

Ecco un esempio di discussione sulla questione mediorientale, tratto dal colloquio con il premier israeliano Golda Meir:

Signora Meir, sa qual è l’opinione di molti? È che il terrorismo arabo esiste ed esisterà sempre finché vi saranno i profughi palestinesi.

Non è vero, perché il terrorismo è divenuto una specie di internazionale malvagia: una malattia che colpisce persone le quali non hanno nulla a che gfare con i profughi palestinesi. Consideri l’esempio dei giapponesi che commisero la strage di Lidda. Gli israeliani occupano forse territori giapponesi? Quanto ai profughi, ascolti: ovunque scoppia una guerra vi son profughi. Non ci sono solo i profughi palestinesi al mondo: vi sono quelli pakistani, indù, turchi, tedeschi… Perbacco, esistevano milioni di profughi tedeschi lungo il confine polacco che ora è Polonia. Eppure la Germania si assunse la responsabilità di questa gente che era la sua gente. E i sudet’? nessuno pensa che i sudati debbano tornare in cecoslovacchia. Com’è che tutti si commuovono per i palestinesi e basta?

Ma il caso dei palestinesi è diverso, signora Meir, perché…

Lo è certamente. Sa perché? Perché, quandoc ‘è una guerra e la gente scappa, di solito scappa verso paesi di lingua diversa e religione diversa. I palestinesi, invece, fuggono verso paesi dove si parla la loro stessa lingua e si osservava la loro stessa religione. Fuggirono in Siria, Libano, in Giordania: dove nessuno fece mai nulla per aiutarli. (…)

Signora Meir, non sente almeno un po’ di pena per loro?

Certo che la sento. Ma la pena non è responsabilità, e la responsabilità verso i palestinesi non è la nostra: è degli arabi. Noi, in Israele, abbiamo assorbito circa un milione e quattrocentomila ebrei arabi. (…) Certo abbiamo problemi con loro, ma resta il fatto che li abbiamo accettati e aiutati. Gli arabi invece non fanno mai nulla per la propria gente. Se ne servono e basta.

Signora Meir, e se Israele permettesse ai profughi palestinesi di tornare qui?

Impossibilie. Per vent’anni son stati nutriti di odio per noi: non possono più tornare fra noi. I loro bambini non sono nati qua, sono nati nei campi, e tutto ciò che sanno è che bisogna uccidere gli israeliti: distruggere Israele. Abbiamo trovato libri di aritmetica, nelle scuole di Gaza, che ponevano problemi del genere: “Hai cinque israeliani. Ne ammazzi tre. Quanti israeliani restano da ammazzare?” Quando insegni simili cose a creature di sette o otto anni, ogni speranza svanisce. Oh, sarebbe un bel guaio se per loro non esistesse altre soluzione fuorché quella di tornare qui! Ma la soluzione esiste. Lo dimostrarono i giordani quando gli dettero la cittadinanza e li chiamarono a costruire iun paese chiamato Giordania. Già: ciò che hanno fatto Abdullah ed Hussein è molto meglio di ciò che hanno fatto gli egiziani. Ma lei sa che negli anni buoni, in Giordania, c’erano palestinesi al posto di primo ministro e di ministro degli Esteri? Sa che dopo la partizione del 1922 la Giordania aveva solo trecentomila beduini e che i profughi palestinesi erano la maggioranza? Perché non accettarono la Giordania come il loro paese, perché…

Perché non si riconoscono giordani, signora Meir. Perché dicono d’essere palestinesi e che la loro casa è la Palestina, non la Giordania.

Allora bisogna intenderci sulla parola Palestina. Bisogna ricordare che, quando l’Inghilterra assunse il mandato sulla Palestina, la Palestina era la terra compresa tra il mediterraneo e i confini dell’Iraq. Questa Palestina copriva le due sponde del Giordano, perfino lo High Commisioner che la governava era lo stesso. Poi, nel 1922, Churchill fece la partizione e il territorio a est del giordano divenne la Cisgiordania, il territorio a Ovest la Transgiordania. Due nomi per la stessa gente. Abdullah, il nonno di Hussein, ebbe la Trangiordania e in seguito si prese anche la Cisgiordania ma, ripeto, continuò sempre a trattarsi della stessa gente. Della stessa Palestina. Arafat, prima di liquidare Israele, dovrebbe liquidare Hussein. Ma Arafat è così ignorante. Non sa nemmeno che, alla fine della Prima guerra Mondiale, ciò che oggi è Israele non si chiamava Palestina: si chiamava Siria del Sud. E poi… insomma! Se dobbiamo parlare di profughi, io le rammento che per secoli gli ebrei furono i profughi per eccellenza! (…) Eppure sopravvissero, e si ritrovarono per fondare una nazione…

Ma è ben questo che i palestinesi vogliono, signora Meir: farsi una nazione. Ben per questo alcuni dicono che dovrebbero avere il loro Stato nella West Bank.[167]

 

Ogni incontro di questo tipo ha esposto la Fallaci ad una serie di problemi e di rischi. Innanzitutto è difficile esser presa sul serio da interlocutori di questo calibro. Inoltre si è confrontata con realtà culturali totalmente diverse, con il problema del traduttore e della palese opposizione  tra le sue idee e quelle dei suoi interlocutori. Oriana Fallaci decise di non venire mai meno alle proprie convinzioni (giuste o sbagliate che siano). E per questo non si mise mai in ginocchio. Nemmeno di fronte ad Arafat:

Lei non è un uomo giusto. Io sono qui e sto ascoltando lei. E dopo questa intervista riferirò parola per parola ciò che mi ha detto lei.

Voi europei siete sempre per loro. Forse qualcuno di voi incomincia a capirci: è nell’aria, si annusa. Ma in sostanza restate per loro.

Questa è la vostra guerra, non è la nostra. E in questa guerra noi non siamo che spettatori. Ma anche come spettatori lei non può chiederci di essere contro gli ebrei.

Già, voi dovete pagare i vostri conti con loro E volete pagarli col nostro sangue, con la nostra terra. (…) L’ignoranza sulla Palestina non è ammesa perché la palestina la conoscete bene: ci avete mandato i vostri Crociati ed è un paese sotto i vostri occhi. Non è l’Amazzonia. Io credo che un giorno la vostra coscienza si sveglierà ma fino a quel momento è meglio non vederci.

Per questo lei porta sempre gli occhiali neri?

No. Li porto per non far capire se dormo o son sveglio. Ma, detto fra noi, io son sempre sveglio dietro ai miei occhiali. Dormo solo quando me li tolgo, e dormo pochissimo. Niente domande personali, avevo detto.

Solo una. Lei non è sposato e non si conoscono donne nella sua vita. Vuol fare come Ho-Chi-min o l’idea di vivere accanto a una donna la ripugna?

No, diciamo che non ho mai trovato la donna giusta. E ora non c’è più tempo. Ho sposato una donna che si chiama Palestina[168].

 

Il potere mal digeriva questi incontri con una personalità del calibro della Fallaci. 

Il generale nordvietnamita Giap dopo l’intervista le fece consegnare da un interprete “tre foglietti di carta velina dicendo che solo questo, era il testo del colloquio che avevo avuto col generale. Il generale non avrebbe riconosciuto altro testo e io dovevo impegnarmi a pubblicarlo. Lessi i foglietti. Non c’era più nulla di ciò che avevo ascoltato. (…) ‘Lo pubblicherò’, risposi. ‘Ma insieme al testo vero’”.[169]

Dopo l’incontro con Golda Meir, i tre nastri contenenti la conversazione vennero addirittura rubati dalla stanza dell’Hotel dove alloggiava la Fallaci. La giornalista dovette chiedere un altro colloquio per rifare l’intervista da capo.

A volte non si sbaglia a definire le interviste della Fallaci dei veri e propri incontri di pugilato. Come nel caso dell’ayatollah Khomeini, leader dei musulmani sciiti e artefice della rivoluzione islamica iraniana. Nel febbraio del 1979 rovesciò lo scià Rehza Pahlavi. La Fallaci prima lo accusò di essere un dittatore fascista, di fare leva sulle masse ignoranti e fanatiche; poi si scagliò contro la legge islamica che opprimeva le donne, segregandole dagli uomini, consentendo la poligamia e costringendole a nascondere il viso con il chador. Lei accusava, l’Ayatollah rispondeva sempre più ferocemente. Al culmine della tensione la Fallaci si strappò di dosso il chador definendolo “stupido cencio da medioevo”. Khomeini scrollò le spalle e sibilò: “se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla, perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene”[170].

Altrettanto aggressiva la giornalista si mostrò nel 1986 con il colonnello libico Muhammar Gheddafi. A fine intervista domandò a Gheddafi:

Colonnello, ma lei crede in Dio?

In Dio?

Sì, in Dio.

Ovvio che credo in Dio! Perché me lo chiede?

Perché credevo che Dio fosse lei…[171]

 

4.2 Roberto Gervaso

 

Cenni biografici

Roberto Gervaso è nato a Roma nel 1937. Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti ed è laureato in lettere moderne. Entrato a ventitrè anni al Corriere della Sera, è poi passato a Il Resto del Carlino e La Nazione. Ha collaborato con il Giornale e con il Gr2. Con Indro Montanelli ha firmato sei volumi della Storia d’Italia. Tra i suoi libri più famosi ricordiamo Cagliostro, Casanova, I Borgia e Nerone.

 

Lo stile

“Nel Maggio del ’76 Gustavo Selva, balzato in sella al GR, mi chiese d’intervistare i neo-candidati alle elezioni politiche, ammonendomi: ‘In due minuti devi chiedere e farti dire tutto. Niente chiacchiere, niente fronzoli e nessuna riverenza per nessuno, nemmeno per il Presidente del Consiglio’.

Le interviste, a botta e risposta, ebbero un tale successo che decisi di estenderle, naturalmente allargate, ma con lo stesso ritmo telegrafico a Il resto del carlino e La nazione, i quotidiani cui collaboro”[172].

 

Così Roberto Gervaso descrive la nascita del suo libro Il dito nell’occhio, pubblicato da Rizzoli nel 1977, prima raccolta delle sue interviste ai personaggi politici più importanti del tempo. A questi ventitrè colloqui ne seguiranno moltissimi altri pubblicati su quotidiani nazionali come Il Giornale, e altri libri dove affinerà la tecnica dell’intervista giornalistica di cui è uno degli interpreti più navigati.

Lo stile di Gervaso è caratterizzato soprattutto dalla complicità  con l’intervistato, dal ritmo incessante di domande brevissime e dal tono brillante.

La prosa introduttiva è asciutta, scorrevole, precisa nei dettagli descrittivi e acuta nelle osservazioni; i personaggi sono ritratti con poche pennellate che ne tratteggiano la storia, l’aspetto fisico, i suoi gusti con la sottile ironia che traspare anche dai romanzi dello stesso autore.

Nella presentazione del personaggio occupa sempre poche righe, e ha inoltre la funzione di predisporre il lettore al clima dell’intervista. Prendiamo ad esempio l’inizio dell’articolo dedicato all’esponente della Dc Giulio Andreotti.

“Se è vero che il potere logora chi non ce l’ha, nessuno più d’Andreotti scoppia di salute.

È nella stanza dei bottoni dal ’47, quando De Gasperi lo nominò sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Non aveva che ventott’anni, anche se ne dimostrava qualcuno di più, come oggi, che ne ha cinquantotto, ne dimostra qualcuno di meno.

Nessun politico sa più di lui ciò che vuole, quando lo vuole e, soprattutto, con chi lo vuole. Più realista di Bismarck, più tempista di Talleyrand, raramente sbaglia e se sbaglia, sbaglia sempre a ragion veduta.

I suoi rischi sono sempre calcolati, le sue uscite mai improvvisate. Solo improvvise. Le sue trame sono sottili, come le sue mani e il suo cervello. Non si vedono, se non quando sono compiute. È difficile persino immaginarle e, forse, per questo quando lui – e solo lui – decide di svelarle fanno tanto rumore, scatenano tante polemiche, gli inimicano gli amici e gli amicano i nemici (chi siano questi e chi quelli è difficile dire, ché cambiano continuamente, e mai a caso).

A differenza di tanti colleghi meno agili, ma anche meno intelligenti di lui, ch’è intelligentissimo, quando cade, cade in piedi. I suoi tonfi fanno rumore, non male. Può sbattere il sedere, non la testa. Riporta contusioni, non fratture. Può finire al pronto soccorso, mai all’ospedale. Non ha bisogno di fasce: un cerotto gli basta. La sua smagliante conversazione sarebbe piaciuta a Voltaire, i suoi libri non sarebbero dispiaciuti a Sainte Beauve. Scrive come parla, con verve, eleganza, competenza, e le sue battute lasciano il segno. Come le sue sortite.”[173]

 

Al termine del ritratto di presentazione, Gervaso attacca con le domande. Sempre brevissimi, i quesiti non superano mai le venti parole: sono interrogativi secchi, senza fronzoli né orpelli. Per ogni intervista se ne contano circa settanta: un numero molto alto, dovuto al fatto che le risposte sono anch’esse molto brevi. Le affermazioni dell’intervistato sono scarne, lapidarie, di una o due righe al massimo: delle vere e proprie sentenze. L’alternarsi incessante di domande e risposte trasmette ritmo all’intervista. Il tono è condizionato dal sottile gioco psicologico che si instaura tra i due interlocutori. Ecco un esempio tratto da un’intervista con Gianni Agnelli:

Lavora più lei o un operaio di Mirafiori?

La disciplina di un operaio è molto pesante, ma il mio lavoro è carico di responsabilità.

Quali sono i suoi talloni d’Achille?

La difficoltà di fermarmi su qualcosa.

La volubilità, dunque?

No, una certa instabilità.

Cos’è il potere?

Prendere delle decisioni che coinvolgono gli altri.

Lei ne ha mai abusato?

Da buon piemontese, no. Il potere, poi non mi piace.

Dà più potere la ricchezza, o ricchezza il potere?

Quando il potere dà la ricchezza, significa che è mal usato.

Quando la ricchezza dà il potere?

Quando un patrimonio impone d’assumere posti di responsabilità.[174]

 

Le domande di Gervaso svariano a tutto campo, dalla politica all’attualità, dal lavoro alla vita privata di ogni intervistato. Ogni interrogativo contiene un’osservazione, ogni risposta viene formulata in modo preciso ma non scontato. Il risultato non mira tanto ad informare il lettore, a riportare dati, argomentazioni, riflessioni ed opinioni complessi, quanto piuttosto a far emergere la reazione del personaggio di fronte alla raffica dei quesiti. Si potrebbero forse paragonare alle odierne interviste della trasmissione satirica  Le Iene, in onda su Italia1, nella quale il montaggio serrato e l’uso della voce fuori campo alza il ritmo del dialogo.

Ecco un esempio, tratto dal colloquio con l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga:

Ordine pubblico e pace sociale sono connessi?

L’ordine pubblico è la forma visibile e quotidiana della pace sociale.

Quando un delinquente è vittima della società?

Quando ha la madre malata, non può farla curare e ruba.

È più facile prevenire o reprimere?

Reprimere.

C’è repressione in Italia?

Io non la vedo.

Da quanti anni è nella DC?

Da quando ne avevo sedici.

Eppure passa per un uomo nuovo.

Com’è nuovo il lenzuolo di una dote tirato fuori dal baule dopo trent’anni.

Alle ultime elezioni ha avuto 178 mila preferenze. Com’è possibile senza fare del clientelismo?

Evidentemente, è possibile.[175]

 

Non c’è tempo di spiegare, di enunciare i pro o i contro di una decisione, di svelare le motivazioni di una scelta: l’intervistato si limita a una semplice battuta, deve riassumere tutto con poche parole, perché l’intervista è telegrafica e le domande sono tantissime. È questa la ragione della reiterata ricerca della battuta spiritosa, della battuta, del doppio senso che talvolta toglie d’impaccio l’intervistato oppure consente a Gervaso di porre qualche domanda impertinente.

Vediamo come rispose nel ’76 il radicale Marco Pannella:

Se non si parlasse tanto dei suoi digiuni, continuerebbe a farli?

Digiuno perché non si parli più dei miei digiuni, ma delle nostre idee. Delle nostre e di quelle altrui.

Ha mai fatto indigestioni?

No.

E scorpacciate?

Tante.

Se fosse ministro, digiunerebbe?

Potrei digiunare, ma potrei anche non digiunare.

Quante volte è stato fermato?

Infinite.

E arrestato?
Una volta in Bulgaria, al tempo dei carri armati di Praga, e una volta tre anni fa a causa della droga.

Processato?

Almeno centocinquanta volte.

E condannato?

In via definitiva, una.

Siete dunque un partito in libertà provvisoria.

Provvisoria? Provvisorissima[176].

 

Il ritmo brillante fa si che queste interviste si leggano tutte di un fiato, ma che non ci siano veri contrasti tra i due protagonisti. Gervaso si limita a insinuare qualche malizia, a fare qualche battuta spiritosa, accontentandosi sempre delle caustiche repliche altrui. Non gli interessa tanto dimostrare una tesi, o cercare delle notizie nuove, quanto far emergere un personaggio attraverso delle brevi affermazioni simboliche. L’atteggiamento non cambia in funzione del personaggio intervistato: che abbia di fronte un calciatore o un politico, un attore o un sindacalista, Gervaso non modifica mai il suo stile concreto, ironico e complice. Tanto che Umberto Eco ha definito le sue interviste ad un vero e proprio genere letterario:

“Anzitutto c’è l’intervista come genere letterario, in cui predomina la figura dell’intervistatore su quella dell’intervistato. Si pensi per esempio alle interviste di  Roberto Gervaso, in cui pare che a rispondere sia sempre La Rochefoucald.[177] Qui chiaramente l’intervistatore costruisce uno stile unico per ogni intervistato, anche quando le opinioni che emergono sono diverse. Non so se l’intervistatore lasci parlare l’intervistato e poi lo riassuma  in frasi lapidarie, o se per così dire ‘prepari’ l’intervistato inducendolo a pronunciare solo frasi lapidarie. In ogni caso l’intervistatore modella l’intervista a propria immagine e somiglianza”178.

 

4.3 Alain Elkann

 

Cenni biografici

Alain Elkann è nato a New York nel 1950. Collabora a La Stampa, Capital, Amica e altre testate. Ha realizzato numerose interviste televisive prima per Telemontecarlo e poi per La7. Tra i suoi libri ricordiamo Vita di Moravia, Cambiare il cuore con Carlo Maria Martini, Essere ebreo con Elio Toaff, Il padre francese, Le mura di Gerusalemme.

 

Lo stile

“L’intervista non era il mio mestiere; ero sempre molto reticente al giornalismo Tuttavia, capii che l’intervista era la continuazione del mio essere apprendista. Significava entrare nella vita degli altri, vedere dove vivono, se c’è odore di cucina in casa loro, se sono in mutande o in doppiopetto, se sono spavaldi o non lo sono”.[178]

 

Alain Elkann è uno scrittore prestato al giornalismo. Un autore che ha avuto fortuna e che ha scelto, da ormai più di un decennio, di percorrere parallelamente anche la strada dell’intervista giornalistica. Il suo approccio alla tecnica dell’intervistatore è stato duplice: da una parte la collaborazione con La Stampa e altre testate, dall’altra la realizzazione di interviste televisive per l’emittente televisiva La7. L’unione di queste esperienze ha consentito a Elkann di plasmare un suo stile personale di conduzione delle interviste, ormai diventato inconfondibile.

Nell’introduzione alla sua raccolta di interviste, Elkann scrive così:

“Grazie alla televisione ho imparato una cosa molto importante: la sobrietà e la brevità delle domande, il saper tagliare. Saltare magari di palo in frasca, praticando la non-logica del romanzo”.[179]

 

In televisione i tempi di trasmissione obbligano il colloquio ad entrare subito nel vivo del discorso, a non perdersi in chiacchiere che potrebbero annoiare il lettore. Elkann ha trasferito questa schiettezza anche nel giornalismo scritto: le sue interviste, infatti, non hanno alcuna introduzione. L’intento è quello di mostrare subito al lettore l’ospite, direttamente, come se ci fosse una prima inquadratura televisiva in primo piano e subito dopo la prima domanda dell’intervista. Ecco alcuni incipit delle interviste di Elkann:

Giulio Einaudi, dove trascorre la domenica?

La passo a roma, in casa mia. Curo la mia biblioteca, guardo i cataloghi antiquari che arrivano e segno i libri che mi mancano. Se ho tempo, il lunedì telefono per procurarmi i libri, ma il più delle volte sono esauriti. Da una parte mi indispettisce, dall’altra meglio così, altrimenti finirei per spendere oltre le mie possibilità.

 

Piero Ottone, è appena tornato da un viaggio per mare?

Sì, ero sul Postale che va da Bergen in Norvegia fino a capo Nord e a Kirkenen. Fa una quarantina di scali per i passeggeri e per le merci.

 

Ornella Muti, lei si ritiene di essere la donna più bella d’Italia?

Ma che vuol dire! Mi metterebbe un’ansia terribile  se pensassi di essere la donna più bella d’Italia. In quel caso vorrei rimanerlo per sempre. La vita è molto più complicata che non sentirsi la donna più bella d’Italia. [180]

 

Le interviste di Elkann non sono molto lunghe: in genere prevedono una ventina di domande. Evidentemente, il lavoro di sottrazione che l’autore opera per la televisione si riflette anche nei colloqui in forma scritta:

“Io adopero, da anni, sempre, dei quadernetti azzurri svizzeri di una certa misura, perciò quando un’intervista ha superato di tre pagine la prima metà di un quaderno, è finita, la taglio. È questione di misura: scrivo tutte le domande e tutte le risposte. E la mia intervista è la dettatura precisa di tutti quello che ho chiesto e di tutto quello che viene risposto e basta”[181].

 

Durante l’intervista, Elkann non diventa mai protagonista in prima persona, ma preferisce lasciare campo libero al suo interlocutore: le sue domande sono sempre generali, non vanno mai a scavare in profondità. Il clima è sempre disteso, e l’autore riesce sempre ad ottenere così facendo la fiducia dell’intervistato. Sentiamo lo steso Elkann in proposito:

“C’è una regola molto importante  nel ritmo delle interviste. La gente adora parlare di sé, allora parla parla parla e tu dici: ‘Grazie’. Solo tu decidi quando l’intervista finisce. C’è in questo lavoro una specie di metrica. E io credendo nel lavoro e nella pratica, dopo un po’ ho maturato un istinto, un’abitudine, un esercizio a far parlare di sé gli altri”.[182]

Ciò che colpisce, in questi colloqui, è l’assoluta molteplicità degli argomenti toccati, senza una logica apparente. Il registro si alza e si abbassa, le tematiche si avvicendano con la massima disinvoltura. I personaggi si susseguono l’uno totalmente diverso dall’altro.

Le domande sono semplici, lineari, mai scomode o maliziose. Però quel leggero tratto di ingenuità che le accompagna può ottenere informazioni lo stesso interessanti. Il ritratto è sempre vivo.

Il seguente è un brano tratto dall’intervista al banchiere Cesare Geronzi:

Suggerirebbe ai giovani di intraprendere la sua carriera?

Non so se questo è l’obiettivo dei giovani di oggi. Devo dire che io ho impiegato ventidue anni per assumere le funzioni di direttore generale di una piccola Cassa di Risparmio. Ne ho impiegati altri diciassette per arrivare a quello che faccio oggi. I giovani di quest’epoca hanno ambizioni molto più frenetiche.

Che rapporto ha oggi il risparmiatore con la Borsa?

È molto attento alla gestione del risparmio. Conosce meglio che in passato l’attività borsistica e in questa fase mostra propensione verso una maggiore rischiosità dei propri investimenti.

Quando si riposa che fa?

Cerco di non pensare alla banca. Vado in campagna. Questo è il tempo della raccolta delle olive, delle letture. Gioco a carte con mia moglie.

Ha ancora casa a Marino?

Certo.

Che rapporto ha con la sua città e i vecchi amici?

È un rapporto tutto particolare, che mi fa trascorrere i miei week-end e le mie vacanze con i vecchi compagni delle elementari impegnati nel sostenere la presenza di Marino nella viticoltura.

Com’è il vino dei Castelli?

Buonissimo, naturalmente![183]

 

È lo stesso Elkann a descrivere altri particolari del suo  stile di intervistatore.

“Uno deve sempre trovare, come in un romanzo, un ‘manico’. Io non ho la curiosità aprioristica di far dire questo o quello. Lentamente capisco quello che voglio che mi si dica, dove voglio andare, e così si comincia”.[184]

 

Del suo metodo di intervistatore stupisce solo un aspetto, veramente  singolare:  Elkann dice di non prepararsi mai prima delle interviste.

Mi ricordo una volta che non sapevo cosa chiedere a Tinto Brass. Mi annoiavo, a Cinecittà, e aspettavo. Poi entrando vedo quest’uomo con un enorme sigaro in bocca e, non sapendo assolutamente cosa domandargli (perché una delle grandi regole dell’intervista è di non essere preparati), vedendolo fumare il sigaro e vedendolo grasso, gli dissi: “Ma il suo modello, chi era, Orson Welles?”. Lui arrossì. Rispose: “Come lo sai? Io sono sposato con la sorella di Cipriani e la locanda di Torricello è nostra. Da ragazzo vedevo lì Orson Welles che mangiava con enorme voracità e fumava il sigaro”. E l’intervista partì da Welles per tornare a Tinto Brass.[185]

 

4.4 Claudio Sabelli Fioretti

 

Cenni biografici

Nato a Cura di Vetralla (Viterbo) nel 1944, Claudio Sabelli Fioretti ha cominciato la sua carriera nel giornalismo lavorando in piccoli giornali di sport. Poi è passato a Panorama che Lamberto Sechi stava trasformando nel Time italiano. Ha diretto Abc, Panorama mese, Sette, Cuore, Gente Viaggi. Inoltre a lavorato a la Repubblica, a Tempo illustrato, all’Europeo, al Secolo XIX. Attualmente scrive interviste per Magazine del Corriere della Sera e brevi editoriali per Io Donna. Ha scritto inoltre quattro libri: la storia di Gigliola Guerinoni, una biografia di Giovanni Spadolini, un saggio sulla provincia italiana e un pamphlet sui rapporti tra uomini e donne.

 

Lo stile

Le interviste pubblicate in questo libro appartengono tutte a una lunga serie pubblicata su Sette durante la direzione di Maria Luisa Agnese. Sono cominciate nel 1999 con un’intervista di Lidia Ravera ad Alberto Ronchey. L’occhiello era “Maledetta gioventù. La generazione che non sa invecchiare”. Ronchey in quella intervista parlò dell’Old boys net, volendo intendere quel gruppo di giovani che nel 1968, armati di belle speranze, avevano predicato la rivoluzione e praticato la contestazione, salvo, trent’anni dopo, ritrovarsi capi di aziende e direttori di giornali. Lidia Ravera fece altre interviste su questo tema. (…) Poi avvertì il giornale che si era stufata. Io ero stato appena licenziato da Genteviaggi ed ero a spasso. Maria Luisa Agnese che aveva fiutato il filone mi chiese di continuarlo. Cominciai intervistando proprio Lidia Ravera. Al mese di Settembre 2004 sono circa 220 le interviste realizzate sotto varie testatine che cambiavano nel tempo senza cambiare molto nella sostanza. Old boys net divenne “Gli anni della gavetta” e quindi “Gli anni del cortigiano”. Oggi la serie si chiama “Terzogrado”. Ma in fondo abbiamo parlato sempre della stessa cosa: l’abilità degli uomini nel galleggiare, resettando la propria memoria, operando un completo lifting del proprio passato e cambiando per interesse non tanto le proprie idee quanto le proprie azioni.[186]

 

Nella postfazione di “Voltagabbana”, Claudio Sabelli Fioretti spiega la nascita della lunga serie di interviste realizzate negli ultimi sei anni, prima per Sette e poi per Magazine, gli inserti che escono il Giovedì con il Corriere della Sera. L’argomento centrale di questi colloqui è la straordinari abilità degli italiani nel cambiare casacca e passare da una sponda all’altra pur di sopravvivere ai cambi di potere. Un’indagine sull’adulazione, sul trasformismo e sull’improvviso cambiamento di idee, programmi, convinzioni di certi onorevoli (ma non solo loro) appena sentono odore di sconfitta elettorale.

Attraverso i dialoghi settimanali con politici, giornalisti, soubrette, agenti, scrittori e intellettuali, Sabelli Fioretti cerca di capire con le sue interviste chi siano i voltagabbana, perché siano così tanti e soprattutto così disinvolti. All’inizio del suo libro l’autore prova a delinearne un ipotetico identikit:

Il voltagabbana dice con molta convinzione di non aver cambiato nulla (“ho sempre scritto queste cose”). Il cambiamento del voltagabbana è repentino (“ma è un travaglio che parte da lontano”). Il voltagabbana rifiuta di dare spiegazioni (“sono cose intime che riguardano solo me”). Il voltagabbana nega il proprio passato, lo ricostruisce con un personale lifting della memoria (“mai dette queste cose”) e spara ad alzo zero sui vecchi compagni colpevoli di essere rimasti coerenti (“sono loro i veri voltagabbana”).[187]

 

Le interviste di Sabelli Fioretti sono l’esito di lunghi colloqui (anche tre o quattro ore) nei quali il giornalista instaura un clima di complicità con l’intervistato il quale tende ad aprirsi e a non risparmiare giudizi taglienti sui colleghi o aneddoti interessanti. L’ossatura di questi dialoghi è preceduta da una breve presentazione del personaggio, poche righe che descrivono sommariamente l’interlocutore, ricordano al lettore qualche flash della sua carriera, e lo inquadrano nell’ambito dell’argomento principe, ovvero i voltagabbana.

Willer Bordon divenne famoso, tanti anni or sono, perché pur essendo iscritto al PCI, prese la tessera radicale. Da allora ha fatto un lungo percorso: dal movimento referendario, che ha introdotto il bipolarismo in Italia, ad Alleanza Democratica e all’Asinello. Adesso è nella Margherita dove non ha perso occasione di sontrarsi con Francesco Rutelli ogni volta che riteneva giusto difendere Romano Prodi. Un ex radical-comunista (Bordon) fa il tifo per un  ex democristiano (Prodi). Sarà strano?

“Non più di quanto non possa sembrar strano un ex radicale (Rutelli) che guida un partito pieno di ex Dc”.[188]

 

Già dalle prime righe di questi articoli si intuisce lo stile ricorrente di Sabelli Fioretti: grande ricorso all’ironia, una scrittura brillante, una forte preparazione sulla biografia dell’interlocutore per metterne in luce le contraddizioni senza mai accusarlo o renderlo nervoso. Il clima è disteso, e l’intervistatore è abile nel suggerire più che nel criticare, nel far tornare alla mente dell’interlocutore episodi del passato e  nello stuzzicare il personaggio proponendogli opinioni continue su persone di volta in volta nominate.

Il risultato è  un lungo colloquio che, insieme alle fotografie, occupa sempre cinque o sei pagine del Magazine, con alcuni elementi ricorrenti.

Una parte dell’intervista è dedicata sempre alla vita privata dell’intervistato, all’aneddotica, allo scavare nella memoria per far venire alla luce dettagli interessanti. Come nel colloquio con il giornalista Marco Travaglio:

Dove hai cominciato a fare il giornalista?

In un piccolo giornale torinese cattolico, Il nostro tempo. Lì ho conosciuto Giovanni Arpino che mi presentò a Indro Montanelli. Ho fatto l’abusivo al Giornale come corrispondente da Torino dall’87 al ’92. Il corrispondente era Beppe Fossati, bravo e simpatico, ma con poca voglia di lavorare. A volte scrivevo pure i suoi articoli e lui mi dava cinquantamila lire al pezzo.

C’era anche Mario Giordano al Nostro Tempo.

Me lo ricordo. Arrivò tutto bello grassottello da Canelli con le guanciotte bianche e rosa. Era bravo.

Giordano sostiene che lui era di sinistra e tu berlusconiano.

Balla clamorosa. Vede talmente tanti berlusconiani che non può immaginare l’esistenza di gente diversa.[189]

 

Ecco un altro esempio tratto dal dialogo con il giornalista e scrittore Massimo Fini:

Ricordi la scuola?

Parini, Berchet, Carducci. Nel mio giudizio del Parini di terza media c’è scritto: “Ragazzo irrimediabilmente distratto da una incoercibile passione per i giochi”. Quattro materie a ottobre in prima media, cinque in seconda. Andai al Berchet. Stessa storia. Quattro materie a ottobre. Ero infantile e libellista. Finii al Carducci.

Ricordi qualche compagno?

Fabrizio Mondatori, Pesenti, Angelo Rizzoli. Insieme ad un altro riccone erano chiamati “il quartetto riccone”.

La tua vita, scuola a parte?

Fino ai quattordici anni ho giocato solo a tollini. A quindici anni scoprii il mondo femminile.

Ricordi il primo amore?

A Savona, bagni Umberto. Anna era una ragazza carinissima. Aveva quindici anni. Vivevo trasognato. A settembre lei andò in montagna. Io volli farle una sorpresa e la raggiunsi. La trovai in compagnia di un altro. Da allora non faccio più sorprese. Telefono sempre prima.[190]

 

Sabelli Fioretti si prepara scrupolosamente prima di ogni incontro. Lo si evince dal tempismo con cui induce l’intervistato a parlare del suo passato, oppure quando riporta giudizi e opinioni di altre persone sull’interlocutore. In ogni colloquio, c’è sempre qualche domanda che inizia con: “Tizio dice di te che..”, “Caio sostiene che una volta…”. Imbeccato in questo modo, l’intervistato reagisce, dà la sua versione dei fatti e contraddice il pensiero dell’interlocutore. Il risultato è un continuo riferimento a fatti, date, luoghi precisi che obbliga l’intervistato a non rimanere mai sul vago. Leggiamo un brano dell’intervista al direttore del Tg1 Clemente Mimum:

Quando nel 1996 la sinistra vinse le elezioni la Bindi disse: “ora via Mimum”.

Quando lessi quella battuta, decisi che dovevo durare un giorno di più di quanto sarebbe durata la Bindi alla Sanità.

Parliamo dei critici televisivi. Norma Rangeri, Manifesto.

Non guarda la tv.

Non è carina con te.

Ha una visione cupa della vita.

Ti rimprovera di mandare in onda le cassette che arrivano da Berlusconi.

La storia delle cassette è una delle sue passioni. Convincerla che non sono un servo del padrone è un’impresa disperata.

Ha detto anche: “Non c’è limite alla piaggeria del Tg2. ha intervistato Paolo Bonaiuti, portavoce di Berlusconi, sulla finocchiona e sui vini toscani”.

È sbagliato.

Non hai smentito.

Non perdo tempo con la signora.

Fallo con me.

Un giornale inglese scrisse che il Chianti faceva schifo. Per amore della toscana feci intervistare due persone, un parlamentare dei Ds e Bonaiuti. Ma alla signora Rangeri, quando sente il mio nome, viene l’orticaria.[191]

 

Un intervistatore come Sabelli Fioretti non si limita a fare domande ma puntualizza, chiosa, precisa, con affermazioni che spingono l’intervistato a dire cose divertenti, interessanti e mai scontate. Tutti gli  interventi di Sabelli Fioretti presuppongono una risposta, anche se non sono vere e proprie domande. Il risultato è che sono tantissime le opinioni forti (come quella di Mimun sulla Rangeri) date dagli intervistatori per difendersi o per dire la loro sulle persone citate da Sabelli Fioretti.

Veniamo ai voltagabbana, vero fuoco centrale.

L’argomento viene discusso da due punti di vista: in primo luogo l’intervistato deve difendersi dall’accusa, sempre esposta con garbo e ironia, di essere un voltagabbana. Sabelli Fioretti prova a evidenziare le sue contraddizioni e incongruenze, ma sempre con un tono disteso, scherzandoci su,  quasi con il sorriso sulle labbra. D’altra parte  il suo primo obiettivo è divertire il lettore, non litigare con l’intervistato. Ecco l’intervista con il voltagabbana per eccellenza, il politico Clemente Mastella:

Se io chiedo alla gente qual è il tuo difetto più evidente, mi dicono l’incoerenza. Come la mettiamo?

Voltar gabbana è nel Dna degli italiani. Non finiamo mai una guerra con quelli con i quali l’abbiamo iniziata. Tra i politici chi non è voltagabbana? Berlusconi era socialista. Rutelli era verde e radicale. Bossi ha dondolato di qua e di là.

E tu?

Io ero e sono ancora democristiano. Questa è la mia coerenza. Mi sono mosso quando è finita la Dc. Volevo fare un centro ma siamo incappati in Berlusconi che incrocia oggi l’idea moderata più forte che c’è nel Paese. Fino a quando c’è lui in campo è  impossibile fare un centro.[192]

 

Riportiamo a titolo di esempio anche un brano del dialogo con Willer Bordon:

Per essere coerente sei passato da troppi partiti.

La coerenza deve essere nei contenuti. Chi è più coerente? Chi cambia uno strumento in modo laico per raggiungere i medesimi obiettivi, o chi, come Gianfranco Fini, fu uno dei più forti oppositori del sistema maggioritario per poi diventarne sostenitore quando si è accorto che ne aveva grandi benefici? I partiti sono strumenti non chiese.[193]

 

Del portavoce di Silvio Berlusconi, l’intervistatore mise in luce con ironia la sua tendenza all’adulazione:

Mi dice almeno un errore di Berlusconi?

Berlusconi ha preso spesso delle decisioni che mi sembravano sbagliate. Ma poi ho dovuto ammettere che erano giuste.

Faccia una follia. Mi dica un difetto.

Un difetto di Berlusconi… un difetto di Berlusconi… è dura.

Passano i minuti.

Non riesco a trovarlo.

Passano i minuti.

È imbarazzante… un difetto di Berlusconi… non so.[194]

 

Quando si parla di voltagabbana, l’intervistato deve fornire a sua volta esempi di trasformismo, nominare dei voltagabbana e spiegare perché li ritiene tali.

Sabelli Fioretti in questi momenti induce sempre il suo intervistato a tirare fuori i nomi, senza ricattarlo o usando toni aspri. Piuttosto giocando sul fatto che tutti gli altri hanno fatto i nomi, che se no i voltagabbana se la cavano, suggerendo dei nominativi che fanno reagire l’interlocutore e lo fanno parlare. Sentite la giornalista Barbara Palombelli:

Preferisco trovarmi di fronte Previti, il falco, il cattivo, piuttosto che tanti amici finti che sono diventati dei falchi facendo finta di essere colombe.

Nomi, nomi.

Non posso fare dei nomi.

Così i voltagabbana se la cavano.

 (…) Per esempio Mario Segni.

Un buono che ha fatto danni potrebbe essere Di Pietro?

Buono? Non mi è mai piaciuto Di Pietro. Non mi piaceva quando passava i pomeriggi, lui sì, nello studio di Previti perché voleva diventare capo della polizia o ministro della Giustizia. O prima, quando andava alle cene con Pillitteri e con i socialisti milanesi.[195]

 

Ecco un secondo esempio tratto dal colloquio con Francesco Cossiga:

Giuliano Ferrara. Dal PCI a Silvio.

Giuliano Ferrara è un liberal leninista. Ha cambiato idea sul valore ideale, teorico, storico del comunismo, anche se ne è ancora fortemente imbevuto.

Mastella. Un po’di qua e un po’ di là.

È l’esigenza del capopopolo. Deve cercare l’interesse del popolo.

Quelli di Lotta Continua. Dalle barricate alle direzioni.

No. Sciolta Lotta Continua ritornati alla vita pratica, si sono arrangiati come potevano. Hanno pensato a campare. Voltagabbana è colui che passa da una parte all’altra perché gli hanno promesso la presidenza della commissione o altre utilità pratiche sulle quali non mi soffermo…

Presidente, lei sta facendo con le dita il segno dei soldi.

Utilità pratiche.[196]

 

Esaminato in lungo e in largo il mondo dei voltagabbana, Sabelli Fioretti usa qualche trucchetto per dare ritmo e brillantezza anche al finale dell’intervista. Per esempio sottopone sempre gli interlocutori al “gioco della torre”: sceglie due personaggi da mettere in cima ad una ipotetica torre  e chiede di salvarne uno. Naturalmente i nomi sono scelti ad arte per tirar fuori qualcosa di interessante all’intervistato. Vediamo quelli proposti a Don Gianni Baget Bozzo:

Tra i due adulatori ufficiali, Bondi e Schifani, chi butteresti giù?

Salvo Bondi. È mio amico.

Rutelli o Prodi?

Butto Prodi. È il peggio del cattocomunismo.

Gasparri o La Russa?

Butto La Russa. Gasparri è praticamente uno di Forza Italia.

Alex Zanotelli o Luigi Ciotti?

Salvo Zanottelli. Non sono d’accordo con le cose che dice ma mi è simpatico. Ciotti no. Ha un’aria equivoca.

Ferrara o Gad Lerner?

Butto Gad Lerner. Ferrara lo amo.[197]

 

Differenti quelli di Renato Farina:

Gioco della torre. Travaglio o Facci?

Butto Facci.

Butti Facci?

Assolutamente. Travaglio è cattivo, falsario, ma intelligente. Facci…

Facci? Dai che ce la fai…

Facci odia il popolo bue. Lo butto, così finalmente saprò perché parla male di me.

Tremaglia o Fisichella?

Butto Fisichella. Ha sempre quell’aria di professore Qualsiasi cosa dica sembra sempre che l’abbia detta Zeus.

Costanzo o Vespa?

Se salvi uno… l’altro…

Non ti invita più?

Non è questo, mi dispiace…[198]

 

Le interviste di Sabelli Fioretti ormai hanno inaugurato un genere ben preciso, che trova la sua giusta collocazione all’interno del settimanale: lunghezza ampia, tante domande a 360°, una lettura intrigante e rilassata. Ormai ne ha realizzate quasi trecento, nelle quali l’autore ha impresso il suo stile pur modificando la rotta negli ultimi tempi:

 “Ormai non c'è più un filo conduttore. Una volta c'erano i voltagabbana, poi gli adulatori, adesso il gioco della torre e ultimamente mi sono inventato il governo trasversale, il governo di sole donne e ultimissimi, gli emergenti e i bolliti. Aneddoti e biografia sono un buon sistema per smuovere l'intervistato e la sua eventuale timidezza. Ma anche i nomi sono importanti. Tutti tendono a tenersi sulle generali. E allora bisogna stanarli e obbligarli a fare i nomi”.[199]

 

CAPITOLO 5

 

UN’INTERPRETAZIONE SEMIOTICA DEL GENERE

 

5.1 Intervista ad Armando Fumagalli

 

Armando Fumagalli è docente di Semiotica all’Università Cattolica di Milano. Lo abbiamo incontrato il 7 Settembre scorso e abbiamo parlato con lui dell’intervista giornalistica analizzandola dal suo ambito di studio.

 

Professor Fumagalli, si può dare un’interpretazione semiotica delle interviste giornalistiche?

Si, la semiotica può aiutare. Deve però essere una semiotica flessibile, e penso possa aiutare a far venire fuori quelli che sono gli impliciti di un’intervista. Innanzitutto dobbiamo tener conto che la buona intervista è un dialogo, non semplicemente una persona che fa una domanda per sentirsi dire ciò che si aspettava già. Il giornalista interpella una persona informata sui fatti e cerca di far venire fuori sempre qualcosa di più. L’intervistatore è importante, così come nella comunicazione sono importanti sempre i presupposti, cioè qual è il punto di partenza che diamo per scontato, acquisito e comune. L’intervistatore, se è abile, può dirigere in modo molto forte un’intervista: nel senso negativo di fare un intervista manipolatoria oppure in un senso positivo riuscendo a far venire fuori l’intervistato in un modo reale e più profondo. In questo si distinguono i grandi intervistatori. La preparazione è assolutamente importante, come l’intuito e saper creare empatia.

L’intervistatore entra anche nella rielaborazione, seleziona, taglia, quindi è un protagonista.

Sì, per esempio Sabelli Fioretti fa delle conclusioni  stilisticamente molto forti, lascia un piccolo botto alla fine, un flash, mette in fondo una cosa significativa. La semiotica (aiutata dalla linguistica) può aiutare a verificare quali siano gli elementi di presupposizione dell’interlocutore nel dialogo, e di elaborazione retorico stilistica che qualche volta sono funzionali a far emergere il pensiero, la personalità. Anche se qualche volta forzano un po’ in una certa direzione. Quindi di credo si possa andare in queste due direzioni, con una semiotica che si appoggi forzatamente anche agli studi di linguistica.

D’altra parte l’intervista è sempre un testo scritto.

Sì, in proposito può essere utile anche la conversation analysis. Ovviamente non possiamo utilizzare la semiotica greimasiana. 

La percezione del lettore o dello spettatore cambia dalla stampa alla Tv?

Certo, in Tv ci sono gli elementi di comunicazione non verbale, il movimento degli occhi, i silenzi. Ci sono delle tecniche precise che vengono utilizzate dagli intervistatori, e anche dall’intervistato se è competente. In tv l’intervistatore interviene molto con il montaggio, può manipolare ciò che vuole. L’intervistato dal canto suo può mandare una serie di messaggi anche con il non detto, per esempio restando in silenzio tra una domanda e una risposta: questo può significare la trasmissione di un’emozione, che lui è emotivamente coinvolto nel problema. Allo stesso modo può guardare in macchina per fare un appello diretto, oppure ostentare un’aria serena, oppure manifestare il suo disagio. Questi aspetti sono stati studiati la prima volta nel celebre confronto televisivo tra Nixon e Kennedy.

Lì il sudore di Nixon diede un’impressione negativa a prescindere dal contenuto delle sue dichiarazioni.

Esatto. L’immagine era prevalente.

 L’intervista radiofonica dove si colloca?

Direi a metà tra Tv e giornali, perché c’è la voce e non c’è l’immagine.

Parliamo del pregiudizio dell’intervistatore.

È un problema di contesti. L’intervistatore deve mettere la sua cultura al servizio di una comunicazione chiara ed efficace. Quindi ostentare la competenza per fare un discorso che non è comprensibile ai lettori è sbagliato, però far capire che uno è competente facendo delle domande centrate rendendole comprensibili è un gran vantaggio. Per esempio, faccio una domanda al politico e dimostro la mia competenza perché gli faccio notare che tre anni fa ha detto il contrario e  cinque anni fa ha detto il contrario del contrario. Viceversa sarebbe sbagliato usare la competenza utilizzando delle allusioni che può capire il politico e non può capire il pubblico.

A volte è proprio il giornalista che diventa protagonista del confronto, come nel caso della Fallaci.

Sì, è possibile. È  un altro errore, se uno fa tante interviste e poi emerge sempre lui o lei stessa non è una buona soluzione comunicativa.

In tv ormai non si fanno più interviste. Perché?

È un problema di corsi e ricorsi storici. Gianni Minoli le faceva benissimo, dava quel tocco di drammaticità forse esagerato però riusciva sempre a far emergere l’intervistato.

Ultimamente ci sono state le serie di Il mio novecento, interviste storiche molto interessanti andate su Rai3. Onestamente interviste di informazione non se ne vedono. Sono ondate storiche, non credo ci sia una scelta precisa. C’è da dire anche che un’intervista troppo lunga non regge il pubblico, bisogna riesumarla in seconda o terza serata, oppure su La7. Diventerebbe per forza di cose una trasmissione di nicchia. In alternativa rimane lo spazio del satellite,  dove vanno in onde le interviste di Beppe Severgnini, il quale si è ritagliato un suo spazio settimanale per parlare dei media.

 

APPENDICE

 

Conversazione in chat con Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005.

 

 Come si prepara lei  prima di un’intervista? Quanto è importante in genere la preparazione prima dell’ incontro?

Un buona intervista ha bisogno di molta preparazione. Diciamo almeno un giorno di lavoro, telefonando agli amici e ai nemici, leggendo tutti i ritagli sul personaggio, che spesso sono moltissimi, e se c'è qualche  libro da leggere tocca farlo. La preparazione è ciò che fa la differenza tra una buona e una cattiva intervista.

 Mi interessa sapere come mai lei è così convinto che si debba far rileggere l'intervista dopo che la si è scritta. Per molti invece non si dovrebbe mai far rileggere.

Sono giuste tutte e due le posizioni. Io preferisco far leggere l'intervista perché le mie interviste durano anche quattro ore. E' giusto quindi che l'intervistato veda come è stato effettuato il lavoro di sintesi.

Accetta sempre le correzioni?

Questa è la fase "polemica". L'intervistato chiede e propone delle correzioni. Io insisto, ma solo se ne vale la pena. L'ultima parola comunque non è la mia. Io riconosco all'intervistato il diritto di cambiare fino alla fine.

Il rapporto tra intervistatore e intervistato è sempre di parità? Oppure visto che ha sempre a che fare con i potenti rischia di subire il ruolo di chi ha di fronte?

No, anzi spesso l'intervistato ha soggezione proprio perché non sa che fine faranno le sue idee. Promettergli la rilettura lo tranquillizza e lo dispone a maggiore sincerità. Alla fine i cambiamenti che chiede, nella maggioranza dei casi, sono minimi.

Quanto conta l'attacco dell'intervista e la rielaborazione nel passaggio parlato-scritto?

Io non uso "riscrivere" l'intervista. Prendo lo sbobinato, che generalmente è di circa 140 mila battute, e lo porto a 12 mila battute attraverso successivi passaggi durante i quali tolgo ripetizioni e chiacchiere inutilizzabili. Alla fine l'intervistato si riconosce perché io non ho usato parole e costruzioni mie bensì quelle sue autentiche. Per fare questo è indispensabile registrare. Quando si prendono appunti è inevitabile tradire la forma e il pensiero dell'intervistato.

Ciò che viene detto "off-record" o in via confidenziale secondo lei  deve essere riportato comunque  oppure no ?

No. Ma io uso alcuni trucchetti proprio perché alla fine l'intervistato rilegge. Per esempio scrivo: "Le dico una cosa ma non la deve scrivere. Me lo assicura?" "Certo, ha la mia parola". E poi scrivo tutto quello che mi ha detto. Se la cosa lo diverte, spesso, lascia tutto.

Quante querele ha ricevuto a causa delle interviste?

Ho ricevuto tante querele in vita mia ma per le interviste poche. Mai dall'intervistato, qualche volta da persone che si ritenevano diffamate dall'intervistato

Nel caso di Ruggero Guarini però è riuscito a pubblicare una pseudo-intervista anche se lui  l'aveva diffidata dal farlo...

Guarini si è comportato in maniera arrogante. Pretendeva non di correggere alcune cose ma di bloccare l'intervista nonostante riconoscesse che non conteneva cose false o inventate. Diceva che era "mutila e tendenziosa". Ma tutte le interviste lo sono perché tagliare bisogna e alla fine rispecchiano la visione dell'intervistatore anche se non corrisponde a quella dell'intervistato.

Alla fine l'intervista è uscita lo stesso e ne sono nate comunque delle polemiche successivamente...

Si sono seccate un po' di persone: soprattutto la Rossini e Piperno.

Ho letto. E’ un segno che comunque l'intervista è riuscita.

No, non direi che le polemiche sono indizio di qualità. Certo che fanno piacere.

Si comporta allo stesso modo con chi chiede di essere intervistato rispetto a chi  contatta lei? Non c'è il rischio che i primi la usino come megafono?

Cerco di farlo. Ma è inevitabile considerare chi ti ha chiesto l'intervista con maggiore severità e chi hai contattato con maggiore indulgenza. In ogni caso quando sospetti che ti stiano usando per qualche marchetta devi smascherarli.

Come?

Dichiarandolo, facendolo uscire allo scoperto, mettendolo in difficoltà proprio sull'autopromozione, usando molta ironia.

Quando si vede che l'intervistato è  in difficoltà oppure renitente bisogna cambiare argomento?

Si. Per poi tornarci in seguito.

Se si è troppo polemici con l'intervistato che non la pensa come noi si rischia di non ottenere risposte interessanti. Qual è il giusto equilibrio tra compiacimento e conflitto?

Io uso la complicità. L'intervistato mi deve credere dalla sua parte. Per litigare c'è sempre tempo.

La Fallaci nelle famose interviste  per esempio non esitava a dire sempre ciò che pensava... così facendo però si esibiva in prima persona perdendo il ruolo di giornalista-mediatore.

Le interviste della Fallaci erano dei combattimenti in cui lei si metteva in prima fila. A me non piacevano.

Lo scopo di un'intervista deve essere sempre farsi dire ciò che si vuole? Cioè far dire all'intervistato ciò che sarebbe capace di dire?

Una intervista ha mille scopi. Ma uno dei principali è riuscire a far dire all'intervistato cose coerenti, reali, divertenti. Bisogna spesso aiutarlo. Io arrivo anche a indirizzarlo, a suggerire risposte. E' una forma di maieutica. Gli italiani non sanno esprimersi, non studiano oratoria a scuola, hanno difficoltà ad esprimersi e a dire quello che pensano, si esprimono in maniera contorta e oscura. Alla fine qualcuno mi dice anche: "Non credevo che potessi essere anche così chiaro". Tremendi sono certi politici e molti professionisti.

C’è sempre un filo conduttore nell’impostazione dell’intervista? A volte sembra quasi che gli adulatori siano marginali, che si parli di più degli aneddoti, della biografia del personaggio, delle sue opinioni.

Ormai non c'è più un filo conduttore. Una volta c'erano i voltagabbana, poi gli adulatori, adesso il gioco della torre e ultimamente mi sono inventato il governo trasversale, il governo di sole donne e ultimissimi, gli emergenti e i bolliti. Aneddoti e biografia sono un buon sistema per smuovere l'intervistato e la sua eventuale timidezza. Ma anche i nomi sono importanti. Tutti tendono a tenersi sulle generali. E allora bisogna stanarli e obbligarli a fare i nomi.

Che poi sono sempre gli stessi... Non c'è il rischio che diventi un club autoreferenziale?

Sì. Esiste questo rischio.

C'è differenza nell' intervistare politici, uomini di spettacolo, professionisti oppure l'atteggiamento che tiene è sempre lo stesso?

C'è differenza solo fra chi ha interesse all'intervista e chi no. Quelli che hanno interesse sono più "facili". Quelli che non ce l'hanno sono più reticenti. Ma è una regola con le sue eccezioni.

L'intervista che non produce nessuna notizia è da buttare? Le interviste peggio riuscite dipendono da quello o da un mancato rapporto di fiducia?

Una intervista non riesce quasi esclusivamente per colpa dell'intervistatore che si è preparato male. Anche il più reticente degli intervistati può contribuire, proprio con la sua reticenza, al successo dell'intervista. Anche se è stupido, anche se è arrogante, anche se non ha niente da dire l'intervista può risultare bella e divertente. Fare un'intervista divertente è il primo obbiettivo che bisogna porsi

 C'è un modello di intervistatore al quale si ispirava all'inizio della serie?

No. Ma sono un innamorato delle interviste di Stefano Lorenzetto, di Giancarlo Perna e di Gian Antonio Stella.

Non crede che oggi l'intervista giornalistica sui quotidiani sia un po' inflazionata? Cioè si cerchi il parere di vip e uomini della strada su tutto, finendo quasi sempre per cadere nei luoghi comuni?

L'intervista è inflazionata. Ma tu stai parlando del "dice-dice" l'abitudine di chiedere ai "vip" l'opinione su tutto, dai boxer alla verginità. L'intervista di cui abbiamo parlato finora è un'altra cosa. Il problema non è l'inflazione ma la banalità. Molte interviste sono inutile spreco di alberi dell'Amazzonia.

Si esatto, intendevo quelle. Invece le sue credo abbiano inaugurato un nuovo genere originale che trova la sua giusta collocazione nel settimanale. Nei quotidiani ci si limita spesso alla battuta volante o al colloquio esclusivamente politico

I dice-dice però sono divertenti. Ridicolizzano coloro che intervengono e che vogliono dire la loro su tutto. Specialiste sono Maria Teresa Ruta e Antonella Clerici. Se si parla di eutanasia hanno ammazzato la nonna. Se si parla di molestie sessuali sono state violentate dentro un portone.

Qual è l'intervista meglio riuscita della serie secondo lei? Forse non ce n'è una sola…

Non riesco a giudicare. Mi ha divertito quella a Bondi.

Com’è il  rapporto con il direttore del magazine? Nel libro cita spesso Maria Luisa Agnese. Le ha mai chiesto di aggiustare il tiro o le ha sempre lasciato carta bianca?

E' lei che decide chi debbo intervistare.

Non ha mai proposto lei i nomi da intervistare?

Pochissime volte. Io mi riservo il diritto di veto.

Mi sembra giusto. Le è capitato spesso di rifiutarsi?

Qualche volta, ma non è poi un veto vero e proprio. Lei dice: “Che ne dici?" ed io faccio una smorfia.

In un capitolo della mia tesi vorrei analizzare la tipologia delle interviste di quattro autori: Fallaci, Gervaso, Elkann e Sabelli Fioretti, dagli anni settanta ad oggi. Secondo lei quali mostri sacri di intervistatori non mi devo scordare di inserire? Sempre intervistatori di carta stampata comunque. Farei Fallaci per i '70, Gervaso '80, Elkann '90 e CSF dal 2000..

Se parliamo di carta stampata, aggiungerei Lorenzetto. Elkann non lo ritengo assolutamente un mostro sacro. E' di un livello decisamente inferiore.

Sì, Elkann è quello che mi convince di meno, forse è  più superficiale e adatto alla tv..

Fa domande tipo: come sta? progetti per il futuro?

Lorenzetto è veramente bravo…

E' incredibile nella ricerca dei personaggi che non sono quasi mai famosi.

Ma azzecca sempre. Cioè è bravo a tirare sempre fuori l'interiorità.. A volte ci si commuove a leggere i suoi pezzi.

Verissimo.

 I grandi intervistatori sono sempre grandi giornalisti mentre non è vero il contrario. E' d'accordo?

Assolutamente d'accordo. Ci sono dei giornalisti eccezionali che non sanno condurre e scrivere in maniera brillante una intervista. Mentre un buon intervistatore è quasi sempre un buon ritrattista, un buon cronista. Magari non un buon editorialista. Come un buon intervistatore sulla carta stampata non è necessariamente un buon intervistatore per la tv. E viceversa.

 In tv comunque è più facile, si vede se uno è in difficoltà dall'espressione del viso, dalle smorfie dal tono della voce. Sui giornali bisogna essere capaci di trasmettere tutto soltanto con la parola scritta...

E' vero anche il contrario. In tv è difficile scendere in profondità.

 Si soprattutto per una questione di tempi. Interviste di ore e ore sono impensabili. La tv secondo lei ha influenzato il modo di fare le interviste sui quotidiani? A  parte la moda dei dice-dice…

Una intervista in tv in diretta è tremenda. Bisognerebbe farle sempre registrate. Come in fondo è per la carta stampata. Si registrano quattro ore e se ne mandano venti minuti.

Andiamo a dormire?:(

Sì, scusi se le ho rubato troppo tempo. Grazie mille, le sue risposte mi saranno molto utili

Va bene così, nel frattempo aggiornavo il mio blog.

Ggrazie ancora… se per caso ho qualche dubbio magari le riscrivo..

Se posso darti un consiglio, anche non sapendo come utilizzerai questo materiale, cita il fatto che l'intervista si è svolta mediante una chat. Questa è una forma nuova di intervista della quale dovresti riuscire a individuare le caratteristiche.

In effetti non è facile, poi era la prima volta.. è difficile fare domande intelligenti in chat... Comunque lo citerò senz'altro.

Fammi sapere quando discuterai la tesi anzi mandamela se vuoi.

Certo, glielo farò sapere. Ora sto raccogliendo materiale e contatti per poi scriverla. Anche perchè non ci sono libri sull'intervista da mettere in bibliografia.

Non c'è nemmeno, a quanto mi risulti, un corso di tecnica dell'intervista in Italia.

No, né esistono manuali di giornalismo che trattino di questo tema.

Bene. Buonanotte per davvero.

 

Bibliografia

 

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Alberto Pesce-Anna Massenti, Tuttogiornale, La Scuola, 1986

Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004

Giovanni Santambrogio, Giornalismo - Appunti delle lezioni, Appendice di documentazione, I.S.U. Università Cattolica, 2003

Sergio Zavoli, La notte della repubblica, Mondadori 1992

 

 



[1] Leo Longanesi (1905-1957), giornalista e intellettuale, geniale fondatore di  Omnibus nell’Aprile del 1937, il primo settimanale stampato a rotocalco. Le fotografie, le vignette, le titolazioni e i criteri di impaginazione lo elevano a modello del settimanale moderno.

[2]Alberto Papuzzi, Professione Giornalista- tecniche e regole di un mestiere”,  Donzelli 1996

[3] Mario Furlan, Il giornale senza segreti”, Paoline, 1996

[4] Sergio Lepri, ,Professione giornalista, Etas 1993, pag.55

[5] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza, 1985, pag.85

[6] Stefano Lorenzetto, Tipi italiani, Marsilio 2004, introduzione di Gianni Minoli, pag.7

 

[7] Paul Mc Laughlin, Intervistare… o essere intervistati – L’arte di porre le domande (e rispondere), Franco Angeli 1992

[8] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza, 1985, pagg.85-86

[9] Conversazione con Enzo Magrì,11 Aprile 2005

[10] Platone, Critone, Fabbri Editore, pag.191

[11] “Corbin, Fisk…e chiunque altro ha una storia da raccontare o un interesse personale”.

[12] “Una parte dei quotidiani di New York stanno disprezzando il giornalismo più che possono, tramite qualsiasi forma di servilismo quotidiano che loro chiamano intervista”.

[13] “L’intervista è il peggiore aspetto del nuovo giornalismo. Essa degrada l’intervistatore, disgusta l’intervistato, e annoia il pubblico”.

[14] E.Clerici, Gli intervistai, in Aa. Vv. Il ventre di Milano, vol II, pag.214

[15] Ibid.

[16] Giuseppe Farinelli-Ermanno Paccagnini-Giovanni Santambrogio-Angela Ida Villa, Storia del Giornalismo Italiano, Utet 2004, pag.218

[17] Ibid.

[18] Intervista con Santos Dumont, in  Il Giornale d’Italia, 19 Novembre 1901

[19] Intervista a Guglielmo Marconi, in Il Giornale d’Italia, 5 Febbraio 1902

[20] A proposito del marchese Ito a Roma , in  Il Giornale d’Italia, 20 gennaio 1902

[21] Un colloquio con Musolino, in Il Giornale d’Italia, 7 Gennaio 1902

[22] Una conversazione col conte De Bulow a Venezia, in Il Giornale d’Italia, 2 Aprile 1902

[23] Montenegro e Vaticano, intervista col conte Luigi Voinovich, in Il Giornale d’Italia, 22 Novembre 1901

[24] Un colloquio con Musolino, in Il Giornale d’Italia, 7 Gennaio 1902

[25] Alberto Cavallari, Colloquio con Papa Paolo VI,  in Corriere della Sera, 3 Ottobre 1965

[26] Ibid.

[27] Ibid.

[28] Ibid.

[29] Ibid.

[30] Il Papa alle Nazioni Unite esorta alla pace i popoli del mondo, in Corriere della Sera, 4 Ottobre 1965

[31] Vittorio Messori, laureato in Scienze Politiche, giornalista a La Stampa e al Corriere della Sera, è autore di libri tradotti in tutto il mondo, a cominciare dal primo, Ipotesi su Gesù (più di un milione di copie solo in Italia). Tra i suoi libri più famosi Patì sotto Ponzio Pilato, Dicono che è Risorto, Varcare la soglia della speranza e Rapporto sulla fede, un colloquio con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI.

[32] Giovanni Paolo II con Vittorio Messori, Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994, pag.XI

[33] Ibid.

[34] La Chiesa non è una minestra rifatta, profonde le radici cristiane d’Europa, in Corriere della Sera, 15 Agosto 2005, pag.17

[35] Enzo Magrì, Un Giglio all’occhiello del “commenda”, in Ordine Tabloid, 2004

[36] Enzo Magrì, Ritratto di un imputato,  in L’Europeo, 1972, n.9

[37] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[38] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974, pag.5

[39] Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923, giornalista e scrittore, fonda nel 1962 la trasmissione Processo alla tappa, in onda tutti i giorni sulla Rai a fine gara durante il Giro d’Italia. Per la televisione pubblica realizza numerose inchieste per Tv7, e conduce trasmissioni giornalistiche di indagine storica, di ineguagliato valore, come Nascita di una dittatura (1972), La notte della repubblica (1989), dedicato alla stagione del terrorismo in Italia, e Credere o non credere (1995). Inoltre è stato condirettore del Telegiornale di Rai1, direttore del Gr1 e presidente della Rai dal 1980 al 1986.

[40] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, Appunti delle lezioni-Appendice di documentazione, I.S.U. Università Cattolica 2003, pag.63

[41] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985, pag.84

[42] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996, pag.65

[43] Sergio Lepri, Professione Giornalista, Etas 1993

[44] Conversazione con  Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[45] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[46] Umberto Eco, L’intervista, in Alberto Pesce-Anna Massenti, Tuttogiornale,La Scuola 1986

[47] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 28 Aprile 2005

[48] Gianni Minoli, Prefazione a Stefano Lorenzetto, Tipi italiani, Marsilio 2004

[49] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993

[50] Ho perso i Mondiali? No, ho tutelato la Rai,  in Corriere della Sera, 14 Maggio 2005, pag.6

[51] Roberto Gervaso, La mosca al naso, Rizzoli 1980, pagg. 103-104

[52] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli, 1996

[53] Marco Magrini, Qui Helsinki, boscaiolo per passione,  in Sole-24Ore, 1 Febbraio 2005

[54] Intervista di Beppe Severgnini a Madonna, Corriere della Sera, 1998

[55] Paolo Murialdi, giornalista per numerose testate nazionali, presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana dal 1974 al 1981, autore di libri come Storia del giornalismo italiano (1996) e Il Giornale (1998). È stato docente di Scienze della Comunicazione all’Università di Torino.

[56] Paolo Murialdi, Come si legge un giornale, Laterza 1975

 

[57]Cesare Lanza, L’anti-Corriere, in Il Mondo, 18 Ottobre 1973, pag.5

[58] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996, pag.150

[59] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[60] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993

[61] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996, pag.66

[62] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[63] Aa.Vv., Come si scrive il Corriere della Sera, Rizzoli 2003, pag.64

[64] Dario Di Vico, Finanza rossa, i Ds recuperino credibilità di giudizio, in Corriere della Sera, 14 Agosto 2005, pag.5

[65] Paul Mc Laughlin, Intervistare o essere intervistati,Franco Angeli 1992

[66] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985, pag.85

[67] Elisabetta Rosaspina, Coelho, il passaparola è il segreto dei bestseller, in Corriere della sera, 2 Settembre 2005, pag.41

[68] Silvia Bizio, Burton: “Vi presento la mia favola gotica”, in Repubblica, 31 Agosto 2005, pag.37

[69] Intervento di Ilaria D’Amico all’Università Cattolica di Milano, Novembre 2005

[70] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, I.S.U. 2003, pag.64

[71] Ibid.

[72] Dino Martirano, “Siamo precipitati, poi il buio e l’acqua fredda”, in Corriere della Sera, 7 Agosto 2005, pag.3

[73] Claudia Voltattorni, “La manovra più difficile, addestramenti speciali per non affondare subito”, in Corriere della sera, 7 Agosto 2005, pag.5

[74] Lello Parise, Il sindaco: non sono più niente, in La Repubblica, 2 Novembre 2002

[75] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, I.S.U. 2003, pag.69

[76] Giovanni Santambrogio, Giornalismo, I.S.U. Università cattolica 2005

[77] Oriana Fallaci, Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, Rizzoli 2004

[78] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2004

[79] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[80] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti del 24 Aprile 2005

[81] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996

[82] Appunti di Stefano Lorenzetto per un intervento al Master Mondadori, 2005

[83] Sergio Zavoli, La notte della repubblica, Mondadori 1992, pag.9

[84] Conversazione con Stefano Lorenzetto dell’11 Luglio

[85] Paul Mc Laughlin, Intervistare o essere intervistati, Franco Angeli 1992

[86] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica, 28 Aprile 2005

[87] Sergio Zavoli, La notte della repubblica, Mondadori 1992, pag.9

[88] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996

[89] Gibelli: basta Silvio/ Poi smentisce: falso, ha risposto un altro, in Corriere della Sera, 2 Agosto 2005

[90] Marco Pastonesi, Intervista ad Alessandro Petacchi, in Corriere della Sera, 9 Agosto 2005

[91] Emilio Carelli, Giornali e giornalisti nella rete, Apogeo 2003

[92] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996, pag. 169

[93] Gian Antonio Stella, L’intervista: onesta ma infedele, in Aa.Vv., Come si scrive il Corriere della Sera, Rizzoli 2003

[94] Matteo Garioni, Figo parla con il cuore: “Sono nato per l’Inter”, in Corriere della Sera, 7 Agosto 2005, pag.49

[95] Claudio Sabelli Fioretti, Confesso che ho sognato un’intervista mutila e tendenziosa. Con Guarini,in Corriere Magazine, Marzo 2005

[96] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996, pag.169

[97] Paul McLaughlin, Intervistare o essere intervistati, Franco Angeli 1992

[98] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005

[99] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005

[100] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[101] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[102] Riportiamo l’inizio dell’episodio, descritto nell’intervista a Renato Cigarini pubblicata sul Giornale:

Ecco l’avvocato milanese Renato Cigarini. Capita spesso a Botteghe Oscure. Vi si muove con dimestichezza. Va a trovare Togliatti e ogni volta viene ricevuto. Poi sale al quarto piano, dai “duri” che sovrintendono all’organizzazione del partito, e per ore s’ intrattiene a porte chiuse con Secchia. Un giorno l’avvocato confida a Caprara il suo mestiere vero: gestisce l’oro di Dongo per conto del partito. Sì, il tesoro trafugato a Mussolini è nelle mani del Pci. “Faccio la spola con la Svizzera” confessa Cigarini "dove le banche ripongono in capaci caveau tutto quanto consegni agli sportelli". Così il tesoro del duce diventa moneta sonante per coprire le molte spese.

[103] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[104] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[105] Furio Colombo, Ultime notizie dal giornalismo, Laterza 1985, pag.87

[106] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004, pag.85

[107] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005

[108] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993

[109] Gianni Minoli, Prefazione, in Stefano Lorenzetto, Tipi italiani, Marsilio 2004

[110] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005

[111] Paul Mc Laughlin, Intervistare o essere intervistati, Franco Angeli 1992

[112] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996

[113] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996

[114] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[115] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005

[116] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005

[117] Sergio Lepri, Professione giornalista, Etas 1993

[118] Stefano Lorenzetto, appunti per un intervento al Master Mondatori, 2005

[119] Ibid.

[120] Roberto Gervaso, La mosca al naso,Rizzoli 1980, pag.116

[121] Daria Gorodisky, “Sulle coop accuse reazionarie ma noi non chineremo la testa”, in Corriere della Sera, 15 Agosto 2005, pag.6

[122] Claudio Sabelli Fioretti, Silvio Berlusconi? È la pin-up di Bruno Vespa, in Corriere magazine, 18 Agosto 2005

[123] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974, pag.24

[124] Alain Elkann, Interviste1989-2000, Bompiani 2000, pag.100

[125] Anna La Rosa, Politici, giudici, donne e finanzieri/ I segreti di Cossiga, in Libero, 15 Agosto 2005, pag.10

[126] Anna La Rosa, “Fazio? La scelta fu politica non tecnica”, in Libero, 7 Agosto 2005, pag.7

[127] Stefano Lorenzetto, Il prof. Sciupafemmine si fa un partito/ “Ero l’ispiratore di Di Pietro…”, in Il Giornale, 21 Marzo 2004, pag.14

[128] Claudio Sabelli Fioretti, Che bello essere la “finanzata” d’Italia, in Corriere Magazine, 11 Agosto 2005

[129] Stefano Lorenzetto, appunti per un intervento al Master Mondadori, 2005

[130]La Chiesa non è una minestra rifatta / Profonde le radici cristiane d’Europa”, in Corriere della Sera, 15 Agosto 2005

[131] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004, pag.19

[132] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996

[133] Appunti di Stefano Lorenzetto per un intervento al Master Mondatori, 2005

[134] Conversazione con Enzo Megrì, 11 Aprile 2005

[135] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005

[136] Cesare Lanza, Io ci tenevo a Totti, ma lui mi ha preso in giro, in Corriere Magazine, Agosto 2005

[137] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[138] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[139] Dario Di Vico, “Finanza rossa, i Ds recuperino credibilità di giudizio”, in Corriere della Sera, 14 Agosto 2005, pag.5

[140] Roberto Gervaso, La mosca al naso, Rizzoli 1980, pag.57

[141] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[142] Gian Antonio Stella, L’intervista: onesta, ma infedele, in Aa.Vv, Come si scrive il corriere della Sera, Rizzoli 2003, pag.65

[143] Umberto Eco, Attenzione alle interviste, sono sempre infedeli, in L’espresso, 31 Gennaio 1993, pag.170

[144] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline, 1996

[145] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005

[146] Alberto Papuzzi, Professione giornalista, Donzelli 1996

[147] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[148] Appunti di Stefano Lorenzetto per un intervento al Master Mondadori, 2005

[149] Conversazione con Enzo Magrì, 11 Aprile 2005

[150] Conversazione con Stefano Lorenzetto, 11 Luglio 2005

[151] Umberto Eco, Attenti alle interviste, sono sempre infedeli,in L’Espresso, 31 Gennaio 1993

[152] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004, pag.102

[153] Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, 24 Aprile 2005

[154] Intervento di Beppe Severgnini all’Università Cattolica di Milano, 28 Aprile 2005

[155] Ruben Razzante, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam 2003

[156] Ibid.

[157] Ibid.

[158] Ibid.

[159] Ibid.

[160] Ibid.

[161] Ibid.

[162] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974

[163] Dell’incontro con Henry Kissinger la Fallaci scrive: “Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa, petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua mamma. Kissinger rispondeva con premura, e il colloquio con me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo un poco”.

[164] Oriana Fallaci, Intervista con la storia, Rizzoli 1974

[165] Ibid.

[166] Ibid.

[167] Ibid.

[168] Ibid.

[169] Ibid.

[170] Oriana Fallaci, Komeini: questo è l’Iran che vuole Allah, in Corriere della Sera, 26 Settembre 1979

[171] Mario Furlan, Il giornale senza segreti, Paoline 1996

[172] Roberto Gervaso, Il dito nell’occhio, Rizzoli 1977

[173] Ibid.

[174] Ibid.

[175] Ibid.

[176] Ibid.

[177] Francois de La Rochefocoult (1631-1680), uomo politico e moralista francese, ostile a Richelieu e Mazzarino. Scrisse le Massime, raccolta di sentenze morali improntate ad amaro pessimismo.

 

17 Umberto Eco, L’intervista, in Alberto Pesce-Anna Massenti, Tuttogiornale, La Scuola, 1986

 

 

[178] Alain Elkann, Interviste 1989-2000, Bompiani 2000

[179] Ibid.

[180] Ibid.

[181] Ibid.

[182] Ibid.

[183] Ibid.

[184] Ibid.

[185] Ibid

[186] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004

[187] Ibid.

[188] Claudio Sabelli Fioretti, Ormai siamo tutti come Lucrezia Borgia, in Corriere Magazine, 8 Settembre 2005, pag.42

[189] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio, 2004

[190] Ibid.

[191] Ibid.

[192] Ibid.

[193] Claudio Sabelli Fioretti, Ormai siamo tutti come Lucrezia Borgia, in Corriere magazine, 8 Settembre 2005, pag.42

[194] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio, 2004

[195] Ibid.

[196] Ibid.

[197] Ibid.

[198] Claudio Sabelli Fioretti, Silvio Berlusconi? È  la pin-up di Bruno Vespa, in Corriere Magazine, 25 Agosto 2005, pag.46

[199] Claudio Sabelli Fioretti, Voltagabbana, Marsilio 2004