“Venga verso le quattro e mezza”. Ricordo ancora la sua voce al telefono. E ricordo che era un giorno caldissimo dell’agosto 1989 quello in cui ebbi la fortuna di conoscere Paolo Borsellino, procuratore della repubblica di Marsala, ex membro del pool dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Borsellino mi aspettava in maniche di camicia disteso su una sedia a sdraio con una gamba ingessata, frutto di una caduta dal motorino, che lo rendeva un po’ ridicolo e molto umano. Ma come, dottor Borsellino, e la vita sotto scorta? E la protezione? Non dovrebbe andare in giro con la macchina blindata? Ha un motorino a prova di mitra? E la scorta la segue in lambretta?
Mi ero preparato diligentemente. Cortese e ironico come si conviene a un siciliano, sincero come si conviene a un magistrato, Paolo Borsellino rispose a tutte le domande che gli feci, anche a quelle meno gradevoli. “Io di destra? Sono stato accusato di essere comunista, fascista, socialista. In passato sì che sono stato militante della destra. Ero esponente del Fuan, un gruppo universitario fiancheggiatore del Msi. Ancora oggi, dal punto di vista personale, mantengo rapporti di amicizia con persone di quella parte politica. Ma non mi riconosco per niente nel Msi, anche se da giovane gli ero vicino. Io, oggi, sono un conservatore. Faccio riferimento a una cultura cattolico-moderata. Ma questo non mi impedisce di lavorare bene anche con chi la pensa in maniera radicalmente diversa da me, come con Di Lello, come con Giacomo Conte, due magistrati che non fanno mistero delle loro idee di sinistra.” Parlammo per circa due ore. Mi raccontò del clima che si respirava negli ambienti giudiziari siciliani, dell’intervista nella quale aveva denunciato lo sfascio del pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, dei suoi colleghi, Falcone in testa, con i quali aveva condiviso paure e successi Si soffermò molto a lungo sulla famiglia, sui suoi figli, su quel vivere da sequestrato, in maniera innaturale, sui danni che si causavano a persone innocenti. Era rimasto scioccato quando l’auto della scorta del suo collega Leonardo Guarnotta aveva avuto un incidente e aveva travolto, uccidendoli, due compagni di scuola di suo figlio. Sapeva che quel correre come mosche impazzite nel traffico di Palermo a sirene spiegate dava fastidio a tutti e rendeva antipatici i giudici. “Non c’è niente da fare – mi disse aprendo le braccia con fare sconsolato e impotente – la protezione è un obbligo. Io – al massimo – ho ottenuto di poter guidare da solo la macchina blindata”. Mi spiegò che non era riuscito a tener lontana la famiglia dalle angosce e dai pericoli connaturati alla sua professione. E quando, per una improvvisa emergenza, le autorità avevano deciso che solo un supercarcere era luogo sicuro per salvare la vita a due giudici nel mirino della mafia, il suo nucleo famigliare rimase coinvolto. E finirono tutti e cinque (marito, moglie e tre figli) “deportati” all’Asinara. Era un ricordo di quattro anni prima, quando era stato ucciso Nini Cassarà, vicecapo della Mobile. Era scattato un allarme generale perché si era ipotizzato (erroneamente, specificò Borsellino) un pericolo imminente per i giudici che stavano scrivendo la sentenza istruttoria del primo maxiprocesso contro la mafia. Così erano finiti tutti all’Asinara, i Borsellino e i Falcone, nel pieno dell’estate, come dei mafiosi, come dei terroristi. Borsellino aveva tentato di opporsi e non aveva ottenuto che un giorno di dilazione, giusto ventiquattro ore per consentire a sua figlia Lucia, sedici anni, di fare una festa programmata da tempo nella villa al mare. La festa ci fu. I ragazzi ballarono. Ma attorno a loro c’erano più carabinieri che alberi e siepi. Mi disse Borsellino: “Proprio quel giorno cominciò la malattia di Lucia che smise di mangiare – anoressia psicogena – e dimagrì di trenta chili in pochi mesi”. Borsellino decise che l’avrebbe guarita lui. Cominciò una terapia a base di parole. Parlava, parlava, parlava. E cercava di trascorrere più tempo possibile con lei. Dopo l’Asinara, se doveva spostarsi da qualche parte, se la portava dietro. Poi un giorno, durante un viaggio verso Roma, sempre loro due insieme, avvenne il miracolo. In un ristorante ciociaro Lucia si convinse che doveva ricominciare a mangiare. E lo fece. Borsellino era tranquillo quando parlava della morte. Ne parlava freddamente e serenamente, forse per esorcizzarla. La considerava una eventualità legata alla sua attività, quasi una malattia professionale. La esaminava, la analizzava. Mi congedò con una frase terribile che pronunciò con la massima naturalezza: “I mafiosi non sono dei killer suicidi, uccidono solo quando sono certi di poter sopravvivere e di riuscire a scappare”. Tre anni dopo, i mafiosi riuscirono a ucciderlo, in via D’Amelio. E riuscirono a scappare.
persone di cui l’italia ha bisogno
Commenti chiusi.