di Adriano Sofri(grazie a Paola Bensi)
Al suicidio di un detenuto si dedica un trafiletto. Per fortuna, ogni tanto, viene qualcuno in visita. Come Roberto Vecchioni, grazie al quale il cortile del carcere ha cambiato nome.
Abbiate pazienza: parlerò di galera. Del resto ammettete che non se ne parla quasi più. Una pietra sopra. La settimana scorsa si sono suicidati cinque detenuti, a Bologna, a Roma, a Firenze, e sì e no qualche trafiletto. Se cinque evadono segando sbarre e calandosi coi lenzuoli dalla finestra, un buon titolo se lo guadagnano. Ora io non dico che un’evasione rocambolesca non meriti un buon titolo. Ma anche a quegli altri cinque che i lenzuoli se li sono annodati al collo e se la sono squagliata direttamente all’altro mondo, un titoletto non andava negato. Per lo più si tratta di disgraziati ancora da giudicare, o condannati a pene brevi. Però a morte. Stasera, mentre scrivo, passa su un telegiornale un titolo che dice: «Un’insegnante portava seghetti per denaro nel carcere di Ivrea, con la complicità di due agenti». Notizia piccante, non dico di no. Sono pur sempre degli statali che arrotondano singolarmente lo stipendio, e passano al lato d’ombra del muro di cinta. Ma su quel telegiornale non l’ho visto scorrere, un titolo sui suicidi della settimana scorsa, né sulle altre morti in carcere, né sulla macabra sequela di suicidi sardi di un po’ di tempo fa.
Va bene, dopotutto si tratta di galera, nero fondo di pozzo: alla larga! Mi ha impressionato che un alto dirigente per le carceri del ministero di Giustizia, che si chiama Emilio Di Somma, sia andato l’altro giorno a un convegno di persone di buona volontà e abbia spiegato schiettamente che l’indultino ha avuto un effetto irrisorio, che i detenuti usciti nell’arco di un anno sono stati più che rimpiazzati dai nuovi arrivi, e che oggi, a estate entrata, i detenuti sono 56.500 per una capienza ufficiale, cioè molto ottimista, di 42 mila. Di Somma si è perfino congratulato col senso di responsabilità dei detenuti cui soltanto finora si deve l’ordine che regna nelle tristi prigioni, il triste ordine. E ha perfino lamentato la ostinata renitenza delle competenti autorità ad alleviare la condizione carceraria, dal Giubileo in poi. Ha fin troppa ragione, naturalmente. Nemmeno del palloncino gonfiato dell’indultino si è più parlato, neanche per un minutino. Anche di allora mi ricordo i titoli di telegiornale: «11 mila delinquenti stanno per uscire dal carcere». Ne sono usciti meno di un terzo, e non in un giorno, ma in un anno. È tutto uno scherzo, vedete.
Nelle prigioni le attività tese a dare qualche dignità ai giorni dilapidati dei detenuti («trattamento», si chiama) sono sempre più ridotte, in nome del risparmio e della sicurezza. D’altra parte, la stessa cosa succede con le cure mediche e i farmaci, in nome del risparmio e della sicurezza, benché chiunque sia pronto a proclamare che la salute prima di tutto. Se sapeste che cambiamento nella vita dei detenuti viene dalla disponibilità di qualcuno ad ascoltarli, dall’attribuzione di una responsabilità anche infima, dall’occasione di un lavoro, fosse pure un paio di settimane da scopino. Sono altrettante piccole resurrezioni, alla lettera: corpi giacenti e abbandonati che si drizzano e riprendono vita, facce schiacciate che riprendono un’espressione. Dove queste attività si svolgono, la proporzione fra costi e ricavi è così sbilanciata a favore dei secondi che solo un’ottusità burocratica o una banale cattiveria possono non accorgersene.
Nel carcere pisano dove vivo (vivo? muoio? Le due cose finiscono con l’avvicinarsi per tutti, ma qui sconfinano presto l’una nell’altra) ci sono dei corsi scolastici. Ci sono scuole elementari e medie, preziose soprattutto per i ragazzi cosiddetti extracomunitari. C’è un corso di scuola superiore, un istituto agrario condotto parallelamente a quello esterno. La dozzina di detenuti che ne ha seguito le classi ha concluso con altrettante promozioni, spesso con voti distinti. E non per qualche speciale indulgenza dei docenti, che hanno sì una comprensione peculiare per quella chiusa succursale della loro scuola, e d’altronde se non fosse così non verrebbero assiduamente in un posto come questo, ma danno e chiedono agli allievi di dentro con l’impegno che mettono e si aspettano dagli allievi di fuori. A incontrarli nel corridoio mentre vanno a lezione, questi detenuti hanno un’orgogliosa serietà che fa scommettere sul loro futuro. Ci sono anche alcuni studenti universitari, anch’essi seguiti da docenti all’interno: i loro esami sono frequenti, i loro voti quasi sempre eccellenti. La sezione riservata a scolari e studenti ha un’austerità da collegio inglese.
Ogni tanto il mondo di fuori entra per qualche speciale occasione. Qualche giorno fa la chiesa del carcere ha ospitato la mostra di dipinti di Sergio e Isabella Staino che avevano illustrato il volume della Einaudi dedicato al mio racconto natalizio. La mostra era già andata a Palazzo Strozzi a Firenze, al Campidoglio a Roma. Ma qui era bellissima. Che le pareti delle galere possano animarsi di figure e colori, rinunciando al culto della bruttezza che vi vige per ufficio, è un bel pensiero, e qua e là si è tradotto nei fatti. Non so se la bellezza salverà il mondo: so per certo che la bruttezza lo perderà. Né si può immaginare che la bellezza riscatti la galera: certo la bruttezza la danna. La bellezza, e la musica. La galera è fragore di ferri battuti e stridore di denti. La musica entra con ali d’angeli.
All’inaugurazione della mostra è venuto Roberto Vecchioni, per amicizia. Per amicizia ha tenuto un concerto impegnato e generoso quanto e più di un concerto tenuto a un gran pubblico di gente libera e pagante. Detenuti, agenti, ospiti erano trascinati e commossi. Ha raccontato, Vecchioni, il cartello sgangherato incontrato in Kenya con la pretenziosa scritta: «Rotary Club of Malindi». Gli farà piacere sapere che dopo la sua visita i detenuti hanno cominciato a chiamare il cortile dei giorni sfortunati, quello che finora era «l’aria piccola», col nome di «Rotary Club of Malindi». I detenuti sono devoti fino alle lacrime alle belle canzoni, e però sono capaci di umor nero.
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